Non esistono belle storie di calcio ambientate in tribunale. Lo sport dovrebbe tenersi lontano da giudici, avvocati, verdetti e appelli. Altrettanto dovrebbero fare i cronisti di calcio, quelli veri, quelli che parlano ai cuori dei tifosi parlando di 4-4-2 e non di memorandum, di interdizione a centrocampo e non di intercettazioni. E’ quello che ci siamo sempre riproposti di fare. Ma vengono momenti in cui il diritto di cronaca impone la sua sacralità anche al di sopra della nobiltà del calcio giocato, notizie che non si possono trascurare, partigianismi della peggior sorta che non si possono non confutare.
L’assist, probabilmente il primo in carriera, ce lo fornisce l’ex “cugino” Gattuso, che ha rilasciato ai microfoni di Rai Sport un commento riguardo il caso-Vieri: “Posso capire, in tante società usano questo metodo. Ma secondo me prima di comprare un giocatore, visto che si spendono tanti soldi, bisogna informarsi sulla loro vita. Io pedinato? Non lo so, ma se lo fossi stato nessun problema. Vivo bene, non ho problemi di alcun tipo. Può dar fastidio a qualcuno, a me no”.
Le parole di Ringhio appaiono a primo impatto tipicamente banali, ma sollevano una questione che a questo punto non può essere trascurata. Gli stipendi dei calciatori da sempre sfuggono ai parametri salariali di quasi ogni altro sport. La loro ipervalutazione li porta a divenire dei veri e propri patrimoni della società, che deve avere strumenti per tutelarsi. Senza arrivare alle intercettazioni abusive, pratica illecita che non può restare impunita, una società ha il diritto di assicurarsi che il proprio patrimonio non perda valore. Nelle ultime settimane si è assistito a una colpevolizzazione della società Inter che va ben oltre i torti pur commessi. Le parole di Gattuso, rivale di cui abbiamo comunque sempre apprezzato la schiettezza, dimostrano una volta di più che giocatori di quel livello devono aspettarsi di essere monitorati, senza per questo cadere necessariamente in depressione.
Ma la caccia alle streghe nerazzurre non si è fermata al caso-Vieri. I paladini della giustizia occasionale da Torino, costretti a ridimensionarsi dopo il fallimento nella difesa del loro prode allenatore, si sono riversati in attacco con i soliti prevedibili schemi. Dopo aver più e più volte violato il principio morale, ancor prima che giuridico, in base al quale non si accusano persone impossibilitate a difendersi, stavolta è il turno delle risatine e delle frasi pronunciate a mezza bocca riguardo l’utilizzo illegittimo, secondo il loro singolare punto di vista, del diritto di prescrizione da parte della società nerazzurra. Potevamo e dovevamo rinunciare, ci dicono.
Ci aspettiamo che abbiano la stessa onestà intellettuale quando valutano gente che, nonostante sia convinta delle proprie ragioni, decide di patteggiare. “Il patteggiamento non è un’ammissione di colpa” ci hanno ripetuto fino alla nausea. E hanno ragione. Allora abbiano la decenza di non insinuare che la mancata rinuncia alla prescrizione invece lo sia.
Certe volte è meglio tacere e rimanere a guardare soltanto ciò che accade in campo. Magari nascosti dietro un vetro. Si fanno figure migliori.