ESCLUSIVO – Guarneri: “Che emozione la prima Coppa dei Campioni con l’Inter! Zanetti è la reincarnazione di Facchetti”

Aristide GuarneriArrivato all’Inter nell’estate del 1958 dal Como (allora in serie B), è diventato presto un punto cardine della rosa nerazzurra e della Nazionale italiana. Stiamo parlando di Aristide Guarneri, il difensore “gentiluomo” (soprannome affibbiatogli a causa delle zero espulsioni rimediate in carriera, ndr), intervenuto in esclusiva ai nostri microfoni per parlare di Inter, dei suoi ricordi e del calcio moderno.

335 presenze, 3 scudetti, 2 Coppe dei Campioni e 2 Intercontinentali con l’Inter. Ci racconta le emozioni più belle dei suoi anni in nerazzurro?

“I ricordi più belli sono sicuramente legati ai primi successi, come, ad esempio, la vittoria a Torino contro la Juve che ha sancito la vittoria matematica del primo scudetto, oppure la conquista della prima Coppa Campioni contro il Real Madrid, che ne aveva già vinte 5 consecutive. Quella contro i ‘blancos’ fu particolare per noi in quanto, ai nostri occhi, apparivano come dei marziani. A quei tempi, non essendoci ancora la tv, li vedevamo solo attraverso le figurine”.

Lei sta seguendo ancora l’Inter e fino all’anno scorso era ancora un osservatore. Qual è, secondo lei, la ricetta giusta per tornare grandi almeno in Italia?

“Con la crisi c’è stato un ridimensionamento che ha portato a credere di più in ragazzi che, fino a qualche anno fa, non avrebbero avuto spazio, e questo, se vogliamo, è un bene. La ricetta è credere nei giovani, cosa che stanno facendo il Milan e la Roma, l’Inter solo in parte. L’unica cosa che non mi piace è che ci sono troppi stranieri, soprattutto gli africani dato che vengono pagati molto poco”.

Quali sono le differenze più marcate tra il calcio d’allora e quello di oggi?

“Sicuramente oggi è più fisico, mentre ai miei tempi, con la tecnica, si riusciva a sopperire più facilmente ad una condizione atletica meno smagliante. E poi c’è da dire che oggi si gioca molto di più: quando giocavo io le squadre in serie A erano molto meno di oggi, in Nazionale facevi 2 o 3 partite all’anno e in Coppa Campioni con una decina scarsa di partite eri già in finale”.

Finita la carriera ha girovagato nel cremonese allenando squadre amatoriali, salvo poi rientrare nell’organigramma nerazzurro, prima nei panni di vice Suarez e, successivamente, come osservatore. Come sono state le due esperienze? C’è qualche giovane che può vantarsi d’aver scoperto lei?

“Vantarmi proprio no, perchè quelli bravi li vedono tutti. Ad esempio, una volta andai a Belgrado a visionare Vidic, ma oltre a me ce n’erano altri 15 di osservatori provenienti da tutta Europa. Visionai e segnalai anche Ranocchia ed El Shaarawy, ma poi dopo è la società che decide in base al prezzo ed altri fattori. I ragazzi vanno visionati nei loro club, non in Nazionale, perchè, come dico sempre io, se un giocatore va bene con il proprio club non è detto che con la Nazionale riesca a fare altrettanto. Con Suarez, invece, fu proprio lui a chiamarmi per dargli una mano, ma vidi da subito la differenza che c’era con i miei tempi, solo dal vestiario. Allora le scarpe ce le dovevamo comprare noi, oggi, con la storia degli sponsor, non hanno nemmeno l’intimo di loro proprietà”.

Herrera e Mourinho: due grandi allenatori entrati nella storia dell’Inter. Lei ha avuto il piacere d’essere allenato dal primo, ma c’è qualcosa nel portoghese che le ricorda “il Mago”? In che senso quest’ultimo ha cambiato il calcio italiano?

“Herrera aveva una metodologia d’allenamento avanti 15 anni. Un esempio la preparazione estiva: prima era composta da corse in montagna; con lui, invece, abbiamo iniziato già dal primo giorno a fare esercizi con il pallone a tutto campo, esercizi che io e Suarez abbiamo voluto testare sui nostri giocatori nel 1992, ma dopo un quarto d’ora erano già stremati. Leggeva i giornali di 4 paesi d’Europa, in modo da conoscere i giocatori stranieri. Mou, invece, non l’ho mai conosciuto, ma in lui rivedo la schiettezza e la sincerità di Helenio”.

Lo scorso 21 marzo, si è giocata l’amichevole tra Italia e Brasile, una gara che le avrà fatto riaffiorare alla mente certi ricordi, in quanto lei, esattamente 50 anni fa, esordì con la maglia azzurra proprio contro i verdeoro. Sempre con la maglia azzurra lei fu l’artefice dell’unico Europeo vinto finora dal nostro Paese. Che ricordi ha della sua avventura in azzurro?

“A parte il gol a Yashin di cui conservo ancora il pallone, l’Europeo è un ricordo bellissimo, non capisco perchè se ne parli così poco. Con la Russia passammo grazie al sorteggio della monetina, dato che allora, alla fine dei supplementari, non c’erano i rigori, mentre in finale battemmo la Jugoslavia al secondo tentativo, in quanto la prima gara finì 1 a 1. Ebbi anche la soddisfazione di marcare Pelè, un grandissimo nonostante non abbia mai giocato in Europa”.

Tanti successi, ma anche qualche insuccesso, ad esempio lo scudetto perso a Mantova o la sconfitta contro la Korea. Ce n’è uno che ancora oggi non ha digerito? 

“Le sconfitte le ricordo meglio ancora (sorride, ndr). Sicuramente lo scudetto perso a Mantova, anche perchè siamo stati in testa per tutto il campionato, e poi quell’anno abbiamo perso tutto: scudetto, Coppa Italia in semifinale con il Padova e la Coppa Campioni in finale con il Celtic. Con la Korea, invece, fu una delusione doppia in quanto il turno successivo loro persero 5-3 contro il Portogallo dopo essere stati in vantaggio per 3-0 dopo mezz’ora. La cosa ci bruciò parecchio perchè voleva dire che erano battibili”.

Qualche aneddoto o curiosità legate alla sua carriera? 

“Il migliore è sicuramente questo: eravamo tornati una domenica mezzogiorno dopo aver vinto l’Intercontinentale (non ricordo quale delle due), e al martedì avremmo dovuto giocare con l’Atalanta. Herrera ci disse di voler iniziare il ritiro la sera stessa, solo che noi, una volta rientrati, riuscimmo a convincere Angelo Moratti a dire all’allenatore di posticiparlo almeno al giorno dopo. Il presidente se ne dimenticò e il mister, alla sera, si trovò da solo al punto di ritrovo prefissato in precedenza. Si arrabbiò moltissimo, meno male che con l’Atalanta abbiamo vinto…”.

In chiusura un pensiero alla famiglia Moratti e a Facchetti.

“La famiglia Moratti è composta tutte da bravissime persone, hanno sempre trattato bene i loro giocatori. Per quanto riguarda Giacinto, posso dire che prima di essere stato un grande giocatore è stato una bravissima persona. Ha sempre fatto tanta beneficenza e non se ne è mai vantato. Non fosse nato 40 anni fa potrei dire che Zanetti è la sua reincarnazione”.

 

Nicolò Casali

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