“Un signore che rimaneva signore, anche quando tutti intorno dimenticavano di esserlo”. Come una roccia levigata dall’azione dell’acqua e dallo scorrere inevitabile del tempo cambia forma ma non la propria essenza, così anche l’anima gentile di un uomo onesto e incorruttibile è rimasta tale, anche quando la malattia cominciava a prendere il sopravvento e nonostante vivesse ormai in un mondo che sembrava non appartenergli più.
Sette anni fa, il 4 settembre 2006, ci lasciava Giacinto Facchetti, indimenticato capitano di mille avventure e uomo dagli antichi valori, così puri e limpidi che, se si parlasse dei colori di un pittore, ci si potrebbero dipingere il cielo e il mare. Adesso tanto lontano da noi, ma allo stesso tempo più vicino che mai nel cuore e nella mente di chi desidera ardentemente seguire il suo esempio, di chi vuole vivere di sport osservando pedissequamente le leggi non scritte che lo regolano, di chi decide di inseguire qualcosa di più grande e gratificante della fama e della notorietà.
Inimitabile all’interno del rettangolo di gioco, quando con una falcata imperiosa ed elegante soleva percorrere la sua fascia sinistra, costringendo gli avversari a guardare impotenti il numero 3 stampato sulle sue spalle e riuscendo ad arrivare comunque in tempo all’appuntamento con il gol, come mai nessun terzino prima di lui. Tanto allenamento, nessuna distrazione superflua e un’attenzione maniacale per i dettagli, come in modo maniacale curava i suoi amati capelli, mai scomposti nemmeno quando nel 1965 in occasione della storica semifinale di ritorno contro il Liverpool, al termine di una impeccabile triangolazione nerazzurra, fece partire i festeggiamenti del pubblico di San Siro con il suo imprendibile destro.
Semplicemente Giacinto Facchetti, definibile come un eroe quotidiano: da una parte simile ad uno di quei personaggi che affollano la mitologia greca e si distinguono per forza fisica e virtù, dall’altra parte un uomo cui piaceva apparire nella sua eterna semplicità, senza mai osannare le gesta e le imprese di un passato glorioso.
“Gaetano e Giacinto, sono due tipi che parlano piano…ma in questo frastuono è rimasta un’idea, un buco nel vento, Facchetti e Scirea”. Cantavano così gli Stadio nel 2011 dando forma ad un’immagine che con estrema facilità descrive il Cipe come un campione silenzioso, come una voce fuori dal coro, come un uomo lontano da quella diffusa convinzione che ci sia bisogno di gridare per farsi ascoltare: nel frastuono creato da chi preferisce imporsi con la propria voce su quella degli altri, Giacinto con la solita e invidiabile calma olimpica riusciva a ridimensionare i toni, costringendo gli altri ad abbassare la voce per sentire ciò che aveva da dire.
D’aspetto un gigante, signore d’animo, come dimostra l’unica espulsione in carriera, rimediata persino per un innocuo applauso nei confronti di un arbitro.
A sette anni dalla sua scomparsa, ci ritroviamo ancora qui, ancora in preda ad una nostalgia che tanto assomiglia ad un gancio ben assestato contro il nostro stomaco, di fronte ad un vuoto difficile da colmare, se non con il ricordo e gli insegnamenti che ci ha lasciato come ricca eredità.
Tante parole per esprimere un unico, semplice concetto: Giacinto, ci manchi!