Ivan Ramiro Cordoba, bandiera dell’Inter e per sempre nella storia nerazzurra, ha rilasciato una lunga intervista a L’avvenire. Eccola riportata in maniera integrale.
Oltre 12 anni da “eroe” in campo, due stagioni da dirigente, l’ultima, la scorsa, da team manager nella nuova Inter del tycoon indonesiano Erick Thohir. Poi l’improvviso, “grazie, arrivederci”. Perché si chiedono ancora i suoi tanti tifosi?
«Il discorso sarebbe lungo, ma se vogliamo semplificarlo con una metafora calcistica è come se l’allenatore mi avesse chiesto: “Iván se fai il bravo giocherai l’ultimo minuto”. Che è diverso da quando la squadra vince 1-0 e il mister all’89’ ti dice: “Dai Iván scaldati, tocca a te”. Ma i tifosi sanno che io per l’Inter ho dato e darei ancora la vita…».
Lo dice con un velo di nostalgia e un pizzico di sofferenza.
«È stata una separazione molto dolorosa. Confesso che ci soffro ancora, perché io non ho lavorato per l’Inter, io ho vissuto per quella società».
Sta parlando della società di Massimo Moratti…
«È stato il presidente in persona a volermi all’Inter. Moratti oltre che un signore del calcio è un grande esperto. Guardava tutte le videocassette dei campionati sudamericani, così quando Lippi gli chiese un centrale difensivo mi mandò a prendere al San Lorenzo de Almagro».
Ha giocato un anno con il club di Buenos Aires, la squadra di cui papa Francesco è socio onorario e tifoso.
«All’epoca non lo sapevo, l’ho scoperto quando è stato eletto Papa. Mi ritrovo tanto nel suo linguaggio e nella vicinanza che papa Francesco ha con gli “ultimi della terra”. L’ho incontrato di recente in occasione della partita interreligiosa organizzata a Roma dal mio amico fraterno Javier Zanetti – l’altro mio “fratello” è Mario Yepes che gioca proprio nel San Lorenzo -. E come Javier, ho avuto la fortuna di recarmi in Vaticano e di conoscere gli ultimi tre Papi».
Il suo secondo “triplete” assieme a quello con l’Inter di Mourinho.
«Vero – sorride divertito –. Il 2010 resterà un anno mitico. Eravamo talmente consapevoli della nostra forza che entravamo in campo pensando già a che minuto avremmo fatto gol. Mourinho è il più grande motivatore che ci sia, ma con lui mi sono anche scontrato duramente…».
Dopo Bergamo giusto? Partita persa contro l’Atalanta e Mourinho che vi urla: “Non avete vinto niente, e quel poco solo grazie ai tribunali”.
«Vero, il giorno dopo Mourinho era furioso, ma io più di lui, perché non conosceva bene la storia ed esagerò nello sminuire tutto quello che a noi era costato tantissimo in termini di sofferenza…».
Si riferisce allo scandalo di Calciopoli 2006?
«Ogni volta che si parla di Calciopoli, poi si scatenano polemiche che non servono al calcio… Posso dire, però, che noi giocatori avevamo spesso la sensazione che certe decisioni fossero un po’ strane. La giustizia sportiva e quella ordinaria hanno poi stabilito che effettivamente qualcosa c’è stato e per quanto mi riguarda questo chiude il cerchio e dimostra che le nostre sensazioni erano fondate. Ora mi auguro che questa triste pagina si chiuda una volta per tutte».
Il 5 maggio del 2002 però, lo scudetto sfumato all’ultima giornata (Lazio-Inter 4-2) non rientra nel libro nero di Calciopoli.
«Era una finale da vincere senza se e senza ma, e l’abbiamo buttata via solamente noi. Tra il primo e il secondo tempo è successo qualcosa che non so spiegare… Mi dispiace ancora, anche per Cuper, con lui la mentalità dell’Inter era comunque cambiata. Quando è arrivato Mancini ha trovato una squadra più quadrata, già indirizzata sulla strada del successo».
Di tutti gli allenatori che ha avuto all’Inter pare di capire che è rimasto legato a tutti.
«A tutti no, anche perché alcuni non hanno sposato la causa dell’Inter e per restare nel “cuore nerazzurro” questo va fatto contro tutto e contro tutti».
Nel suo cuore rimarrà per sempre, invece, Giacinto Facchetti.
«Ricordo ancora la sua gioia dopo la conquista della prima Coppa Italia del 2005, erano sette anni che l’Inter non vinceva niente. Poi il suo sorriso dolce, paterno. Da un letto d’ospedale prima di andarsene Giacinto ci incoraggiava: “Mi raccomando – diceva -, vincete, fateglielo vedere che siete i migliori”…».
Chi sono stati i migliori con cui ha giocato?
«Ronaldo, un fenomeno sul serio che in allenamento faceva cose mai viste… Roberto Baggio campione di fantasia e di semplicità. Poi il potentissimo Ibrahimovic e lo “spietato” Milito. Se posso, al quinto posto metto il grande Valderrama».
Mario Balotelli, che vorrebbe tanto tornare all’Inter, nella sua classifica personale poteva occupare il 6° posto?
«Poteva, ma è una battaglia persa. Abbiamo provato ad aiutarlo e a fargli capire che stava sbagliando, ma Mario è fatto così e se non gli scatta qualcosa dentro le cose non cambieranno. Se hai solo il talento e non alleni la testa, allora non potrai mai diventare un campione vero».
Il suo connazionale James Rodriguez, ha un anno meno di Balotelli, ma gioca già da campione.
«James ha tutto per diventare un Pallone d’Oro, ha testa, classe e sta nella squadra giusta, attualmente la più forte che c’è, il Real Madrid. Messi per ora è inarrivabile, ma a James manca poco per giocarsela con Cristiano Ronaldo».
E l’Inter quando tornerà a giocarsela alla pari con la Juventus?
«In questo momento all’Inter come in altri grandi club non ci sono soldi e, quindi, non è possibile fare acquisti di grande livello. Quando mi chiedono, perché in difesa manchino i Cordoba, i Samuel o i Materazzi, io rispondo: stiamo parlando di altri tempi e di altra passione. Mi viene da ridere, invece, quando sento dire a un giocatore che ha “paura degli avversari”. Io non ho mai avuto paura di nessuno: un difensore vero, in quanto uomo, può temere le malattie, le guerre o la povertà nel mondo, ma certo non gli attaccanti».
In difesa dei più deboli, lei è da sempre in prima linea.
«Dieci anni fa a Medellin ho fondato l’associazione “Colombia te quiere ver” che si prende cura dei bambini disagiati. In questo momento forniamo cibo e assistenza psicologica a 150 bambini della mia città natale, Rionegro. Inoltre, stiamo portando avanti il progetto della “Barca Ospedale” attrezzata per garantire il servizio medico nella zona del Pacifico colombiano dove vivono popolazioni che prima d’ora non avevano mai visto un dottore. Sostenere e mantenere unite le famiglie è il nostro gol quotidiano».
L’altro gol di Cordoba è quello di scovare talenti tramite la sua Accademia.
«Porta le mie iniziali, si chiama “IRC Sport” e l’obiettivo iniziale è investire su giovani promesse colombiane, per poi in futuro allargare il discorso ai talenti di altri Paesi. Nostro compito è accompagnarli nella crescita umana e professionale, fare in modo che non si perdano, come accade alla maggior parte dei giovani calciatori che dalla Colombia hanno tentato il grande salto in Europa. Per questo al ragazzo diciamo: tu vai in campo che al resto pensiamo noi e la tua società».
A un giovane che si affaccia ora sul palcoscenico del calcio che conta che insegnamento si sente di trasmettere?
«Gli direi: quando vai in campo non dimenticare mai di giocare prima per la tua squadra e poi per tutto il resto. Solo così crescerai come calciatore e come uomo, e di sicuro aiuterai la tua società a diventare sempre più forte e importante. Io all’Inter ho fatto solo questo, fino all’ultimo minuto».
This post was last modified on 5 Gennaio 2015 - 15:34