Intervistato dal Corriere dello Sport, Evaristo Beccalossi si racconta. Ecco le sue parole:
“Quando ho cominciato ad amare il calcio i numeri non erano personalizzati. Era il ruolo, cioè la squadra, più importante del singolo. Ma così è nella società dell’io in cui viviamo. I miei numeri preferiti erano l’uno, il portiere, il tre, per Facchetti e Cabrini, il sei, perché il libero, già dal nome, mi piaceva. La somma di questi tre numeri, e ruoli preferiti, faceva il dieci. Il numero dei campioni, di quelli che sapevano fare tutto. Il numero principe del calcio. Il numero di Pelè e di Maradona, di Rivera e di Platini, di Meazza e di Zidane, di Zico e di Eusebio. Il numero di Evaristo Beccalossi, che in questa intervista lancia un appello contro la «sparizione del numero dieci”.
Partiamo dalle origini della sua passione. Immagino che, come tutti quelli della sua generazione, sia stato l’oratorio, benedetta istituzione calcistica, il luogo del suo apprendistato.
“In oratorio si giocava cinque contro cinque. E io facevo quello che ho sempre fatto, in tutta la mia vita. Facevo il fenomeno. Mio padre, che era un operaio ed è stato così importante per me, mi mandava lì a giocare tutti i giorni. Dopo un anno e mezzo fui preso alle giovanili del Brescia e mi ritrovai in un campo grande, non capivo dove fossi e perché si dovesse correre tanto. Era il pallone che doveva correre, mica io. Una convinzione che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Vede, io non sono mai stato fisicamente forte, anzi. Ho sempre giocato solo per divertirmi, non per faticare. In fondo non mi sono neanche mai preso troppo sul serio. Io giocavo, nel senso letterale del termine. In fondo, se si chiama “gioco” del calcio, una ragione ci sarà pure. Insomma a undici anni arrivo nella giovanili del Brescia ma ero un po’ diverso dagli altri. Per esempio non passavo mai la palla a nessuno. E allora non mi facevano giocare, mi mettevano in panchina. Ma io, mentre aspettavo di entrare, che tanto a un certo punto di me avrebbero avuto bisogno, mi mettevo dietro la porta a giocare contro il muro. Destro e sinistro, per migliorare la tecnica dei piedi. Con il muro, mio compagno di gioco e maestro, non mi annoiavo”.
Ma lei la palla non l’ha mai passata, né da ragazzo né da campione?
“No, no, per carità! Se ce l’hai perché dovresti darla via ? E’ tutto lì il divertimento… Non mi passava neanche per la testa. Per questo tra i dodici e i quindici anni sono stato la riserva di tutti. Però nessuno mi cacciava, perché poi entravo e risolvevo la partita. Finché una volta mi vide Mauro Bicicli, l’allenatore della prima squadra. Era stato uno dei giocatori dell’Inter di Herrera. Durante una partita di allenamento tra gli allievi e i titolari mi scelse e mi disse che avrei esordito in prima squadra. E così fece: scelse un campo facile facile, a Catanzaro. La palla l’ho presa i primi cinque minuti, poi mai più. Fisicamente ero gracile e avevo sedici anni. Dopo il calcio d’inizio feci un tunnel al mio marcatore, un tipo grande e grosso. Mi passò vicino e mi sibilò “Se lo rifai, con un calcio ti faccio finire a Soverato”. Io allora chiesi a un mio compagno che diavolo fosse questo soverato. Lui mi rispose che era un comune a venti chilometri. Pensai bene, allora, di astrarmi dal resto della partita”.
Ma torniamo alla palla non passata mai. Perché la teneva tutta per sé?
“Io avevo un rapporto confidenziale con il pallone, ci davamo del tu e trascorrevamo molto tempo insieme. Di correre non avevo nessuna voglia, mi sembrava superfluo. Poi mi hanno spiegato che bisognava adattarsi a delle cose chiamate schemi tattici. A me piaceva il pallone, giocarci, accarezzarlo. I miei idoli erano stati Sivori, Rivera, Cruyff. Li guardavo per ore cercando di rubare idee e trucchi. Gli allenatori sostenevano che bisognava allenarsi, tesi stravagante. Io non è che mi sottraessi per presunzione, è che non ce la facevo proprio. Per me era drammatico. Durante la settimana arrancavo e se qualcuno mi avesse visto, senza conoscermi, avrebbe pensato che ero un amico dell’allenatore o del presidente aggregato per celia ai giocatori veri. Poi però la domenica facevo faville. C’è stato persino qualche allenatore che voleva trasformarmi in un atleta. Assurdo. Io ero un giocatore, non un atleta”.
E con queste caratteristiche come è finito alla grande Inter?
“Mi segnalò Mario Mereghetti, che era stato un centrocampista dei nerazzurri e ne era divenuto osservatore. Più avanti nel tempo mi raccontò che aveva visto una partita in cui avevo fatto cinque dribbling, ero arrivato da solo davanti al portiere e avevo tirato fuori. Mi è capitato. Ma quei cinque dribbling lo avevano convinto a dire a Mazzola di acquistarmi subito. Io in verità arrivai a Milano con un anno di ritardo perché durante il servizio di naia non volli andare nella nazionale militare. Non ero antimilitarista, avevo paura dell’aereo e degli elicotteri. Quelli andavano a giocare con quei mezzi e io preferii, per prudenza, farmi assegnare in caserma a Bologna. Solo che lì si mangiava bene e c’erano dei bar con delle colazioni sopraffine. Fatto sta che ero ingrassato di sei o sette chili. Persi un anno. Mi ricordo quando finalmente arrivai a Milano. Ero emozionato. Mi accompagnò mio padre con la seicento. C’era una nebbia… anche quella oggi è sparita. Papà era più teso di me, lui che mi regalava gli scarpini a Natale, man mano che crescevo. Le racconto del mio primo contratto: ero così nel pallone che ho firmato appena ho visto, sul foglio, l ‘intestazione F.C. Internazionale. Loro non avevano ancora messo la cifra, ma io avevo troppo paura che ci ripensassero”.
Come è stato l’impatto con Milano?
“Quando sono arrivato ho visto Mazzola, Corso, Suarez… E mi sono chiesto: “Io qui che c… ci sto a fare?”. Però poi pensai che, dall’oratorio a San Siro, avevo fatto tutto senza avere altro obiettivo che quello di divertirmi. La prima partita, un’amichevole col Vicenza, io feci due gol e il pubblico mi prese subito in simpatia. Che qualcosa fosse cambiato lo capii la mattina dopo al bar del paese dove andavo per la colazione, una sigaretta, che non mi sono mai fatto mancare, e per leggere i giornali sportivi che stavano appoggiati sul bancone. La mattina dopo quell’amichevole c’erano almeno dieci giornalisti. Da quell’esordio l’amore degli interisti per me, e mio per loro, non è mai finito. Qualcuno dice che, nella mia carriera, con i mezzi tecnici che avevo, avrei potuto fare di più. Ma io invece penso che non me ne frega nulla. Quando sei in campo e settantamila persone gridano il tuo nome, quando vedi tuo padre felice sugli spalti, quando trent’anni dopo i tifosi ti vogliono ancora bene, questo vuol dire qualcosa di più dei risultati del palmarès. Sono felice così”.
Quale è stata la sua partita più bella in nerazzurro?
“Tutti dicono il derby col Milan con la doppietta che feci. Per me è stata invece un’Inter-Lazio in cui segnai e giocai benissimo. Me la ricordo anche perché ero stato punito e lasciato da solo una settimana in ritiro”.
E che aveva fatto per avere una simile punizione?
“Beh, Bersellini voleva che io fossi in piena regola, che mi comportassi come un atleta perfetto. Ma io avevo 24 anni e volevo divertirmi. In quel periodo stavo dappertutto, non mi contenevo. Ero troppo felice, la vita mi esplodeva intorno e addosso. Come potevo non esserlo? Io lo so che ormai il calcio è diventato un business e le squadre sono aziende. Ma se perde il suo aspetto ludico e poetico diventa una industria di metallo . Gli stadi vuoti non fanno riflettere?”.
Parliamo dei due rigori che sbagliò con lo Slovan?
“Parliamone, anche quella fu una serata magica. Magia di streghe, ma sempre magia. Per fortuna vincemmo ma io sbagliai un rigore. Quando, cinque minuti dopo ce ne diedero ancora uno io mi tirai da parte. Ero il rigorista della squadra ma avevo sbagliato. I compagni mi incoraggiarono, mi spinsero. Io ero mortificato per il primo errore ma non me la sentii di tradire la loro fiducia. E tirai. E sbagliai. Ancora sbagliai. Mi sentii morire. Ero terrorizzato soprattutto che i tifosi smettessero di volermi bene. Invece quando tornai a San Siro, quindici giorni, tutto era come sempre. Mi hanno perdonato quella serata storta”.
E la Nazionale? Per poco non fu anche lei campione del mondo.
“Anche lì non fu una cosa bella. Io giocavo poco, in azzurro. Capivo che Bearzot aveva il suo gruppo, quello del 1978. Però alla fine restammo a casa Roberto Pruzzo, che era stato il capocannoniere, ed io che avevo fatto un campionato strepitoso. Dalla Federazione mi mandavano a dire di non fare polemiche, che sarei stato convocato. Ma così non fu. Non porto rancore a Bearzot che fece, con i ragazzi, un’impresa memorabile. Ma siccome non tutto il male viene per nuocere io fui, nel periodo dei Mondiali, ingaggiato come commentatore da Telemontecarlo. Così mi cuccai venti giorni a Montecarlo, bell’albergo e bellissimo viavai. Immaginai, in quei momenti, i miei compagni che faticavano al sole e mi dissi che non bisogna pensare a quello che manca ma a quello che si ha. E io, le assicuro, in quel momento avevo molto”.
Non dubito. Lei fece il tifo per gli azzurri, nonostante la delusione?
“Sono sincero, non ricordo niente. Ero provato. Durante una partita il telecronista mi sussurrò, fuori onda, “Ogni tanto devi dire qualcosa, sennò che stai a fare qui?”. C’era un tale movimento, a Montecarlo… Giorni bellissimi, anche se ebbi poco tempo per tifare”.
C’è un giocatore che oggi le assomiglia?
“No, no. Impossibile fare paragoni, è tutto diverso. Io penso sempre : “meno male che ho giocato negli anni ottanta, se no mi toccava correre”. Dopo un allenamento di quelli che fanno oggi io sarei morto e defunto. Ma lei li vede quanto corrono, lo sente il rumore dei contrasti? Adesso è tutto fisico. Prima potevi bluffare. Ora non puoi più nasconderti”.
This post was last modified on 5 Marzo 2016 - 17:57