Qualche interista vaccinato lo aveva pionieristicamente profetizzato sin da quel pareggio d’esordio nel derby, salvo zittirsi sotto Natale e infine rivendicare ragione adesso, che i giochi sono bene o male conclusi: statistiche -e non solo- alla mano, il passaggio Mazzarri-Mancini non ha invertito la rotta nerazzurra come ci si aspettava. Analogie lucenti e antitesi inspiegabili accompagnano infatti il confronto tra il Mago Walter e lo jesino, il quale ha spunti e radici ben più profonde di mere percentuali che se la battono al decimo.
Tutto comincia con quel 15 novembre rivoluzionario, che da subito fa storcere il naso poiché qualcosa della nuova Thohinter non quadra: soldi, nomi importanti, progetti risolutori, che vanno a scontrarsi con un mercato in chiusura ed una rosa reduce dal tonfo stramaccioniano. Il portafogli indonesiano resta chiuso, la consolazione è la prospettiva di una rinascita graduale: Thohir non porta la magia ma si affida al mago, Walter Mazzarri, in realtà fortemente voluto da Massimo Moratti. Il biglietto da visita del livornese è una sola Coppa Italia, che poco giustifica i 3 milioni e mezzo annuali di ingaggio.
Una, due, tre, quattro giornate e qualche domenica ancora di applausi per la sua Inter, entusiasmo che l’opinione pubblica non esita a chiamare miracolo, poi il tracollo. L’Inter gioca male, spesso non gioca affatto, la classifica si allunga, lo staff oscilla tra gli sforzi e l’impotenza dovuta ad una rosa deficitaria: M’Vila, Belfodil e Campagnaro con tutto il rispetto poco hanno a che vedere con un Kondogbia o un Perisic e in generale un obiettivo Champions.
Punti persi, un mister che tutto fa tranne che ben comunicare, passando per la telenovela Vucinic-Guarin, l’atto della tragedia dove il protagonista muore. Di sogno non parla più nessuno, l’interista fa presto a cambiare desideri e umore, il mezzo incubo è servito. “Se non si vende non si compra”, a sottintendere un caos totale che è il via libera alla vera rivoluzione: leccate le ferite del primo anno, sarà il pari di Inter-Verona di quello successivo a sancire il primo esonero della carriera di Walter Mazzarri ed aprire il Mancini-bis.
Invocato a furor di popolo, confortato da un organigramma dirigenziale rivoluzionato, il Mancio si distingue subito dal suo predecessore, palmarès a parte, per quell’appeal internazionale che sferra il primo tiro mancino al Mago: non deve arrangiarsi, chiede e ottiene. Sa parlare e sa quando farlo, convincere il capo ad aprire il portafogli è indiscusso talento con la conseguenza entusiasmante dell’arrivo di Miranda, Murillo, Perisic, Ljajic, Kondogbia, Jovetic, sebbene la prima ondata di ingaggi (Shaqiri e Podolski) non si fosse rivelata arguta. In mezzo anche l’addio a Kovacic, un capolavoro contro quel mostro di nome FFP.
A suon di 1-0 e 0-1 che fanno infuriare tutti e gongolare i nostri, l’Inter arriva a dicembre con brutto gioco e classifica straordinaria. Quel cocciuto di Mazzarri è solo un ricordo, un po’ meno lo è la qualità del gioco espresso dai giocatori in campo un anno dopo. Nomi diversi, stesse domeniche al Meazza, con la proverbiale calma dello jesino messa a dura prova da nervosissimi episodi mediatici.
Venti formazioni diverse in 22 giornate di campionato, la capolista di Natale comincia a squagliarsi all’Epifania: dopo qualche panchina in più rispetto a Mazzarri le differenze sono tutto sommato poche, con Thohir che non puo’ esultare per il cambio di rotta quando i dati sanciscono solo qualche decimo in più nella media punti a partita. Ancora una volta il sogno diventa incubo. Il condizionale “E se avessero speso per Mazzarri, dove sarebbe arrivato?” è tanto sgradevole quanto d’obbligo.
Un ultimo tentativo per il terzo posto, poi la resa col Toro in casa: per il sesto anno consecutivo l’Inter non raggiunge la Champions League e la fiducia data a prescindere adesso comincia a vacillare, il carro dei vincitori resterà vuoto ed alibi non ce ne sono davvero più. Persino il più ostinato degli anti-mazzarriani deve arrendersi oggi all’evidenza di due personaggi agli antipodi ma artefici di un medesimo percorso cui rispondono in prima persona sempre e solo loro, portafogli e tifosi.
I meno pazienti paragonano subito il Mancini-bis ad una minestra riscaldata, il quale a differenza di Mazzarri ha avuto tutto l’occorrente per lavorare bene e le spalle coperte a prescindere, limitandosi a rassicurare tutti e aggiornare il taccuino (l’acquisto di Eder a gennaio resta tutt’oggi un enorme punto di domanda), muovendosi in un campionato in cui l’imperativo vincere coincide perfettamente con quello di sopravvivere. Per altri invece, il Roberto nazionale resta comunque in credito con la società in termini di crescita generale, qualità tecnica e prospettive.
Il biscione che si morde la coda: Mazzarri non ha fatto bene, Mancini non ha fatto meglio. La fisionomia del progetto-Inter appare oggi più sfocata, i nomi di improbabili successori sono già sui giornali, i meno disfattisti dicono che servono tempo e sofferenza. Ma dimmi cosa c’è di meglio.
Davide Costante