Una notizia improvvisa, inaspettata, nel cuore di un normalissimo pomeriggio di fine maggio, quando la stagione calcistica per club è ormai conclusa e l’attenzione è tutta rivolta alle Nazionali, all’imminente Europeo che la rappresentativa allestita da Conte dovrà affrontare senza aspettative di rilievo.
Tra una protesta convinta per un Bonaventura lasciato a casa e un sincero sconcerto per la presenza del bianconero Sturaro, il tifoso interista si è improvvisamente trovato estraniato da tutto ciò, spiazzato, parzialmente sconvolto da una notizia di portata significativa. Un nuovo passaggio di consegne, un nuovo stravolgimento ai vertici quando non sono ancora passati tre anni dal primo, che ha visto l’inizio della progressiva uscita di scena di Moratti e la comparsa di questo pasciuto signore indonesiano tutto “brand e management”. Perplessità, ma anche convinzione che fosse la soluzione migliore, che Moratti avesse ormai poco da dare in termini economici e umani, che una nuova maniera di gestire una società fosse opportuna, più imprenditoriale e meno sentimentale.
Thohir ci ha provato a impostare un suo modus operandi: dirigenti di spessore internazionale, gestione ferrea dei costi e delle spese, continue negoziazioni con l’UEFA per l’ormai straziante fair play finanziario, accordi e scadenze da rispettare, obiettivi da raggiungere. Sul bilancio, ma anche sul campo, perché poi i tifosi quello vogliono. Ebbene, dopo quasi 3 anni non si può gridare certo al miracolo realizzato. Nessuno se lo aspettava vista la criticità della situazione, ma allora perché mollare, di punto in bianco, un progetto iniziato da poco?
E’ questo l’aspetto che dovrebbe turbare il tifoso interista, è forse così difficile riportare l’Inter nell’Olimpo del calcio italiano e mondiale? La cessione di Thohir è un segnale di resa, una bandiera bianca alzata nell’impossibilità di conciliare molteplici esigenze? Conti e risultati, acquisti e bilanci, un caos oggettivamente complesso da gestire. L’intervista sul Corriere dello Sport dell’altro giorno rappresentava una mazzata immane su ogni tipo di sogno di novella grandezza. Realismo brutale e incredibile pragmatismo: vendere 2 o 3 titolari per la stabilità, sforzo dell’allenatore, sogno di andare in Champions. Una verità non entusiasmante, ma comunque una verità e dunque mai sbagliata.
L’Inter è questa: è un cane che si morde di continuo la coda, che per vincere deve spendere, che per spendere rischia però di indebitarsi troppo e di mettere in crisi la sua stessa esistenza. Allora non si spende troppo e allora non si vince. Ci si rende conto di essere attorniati da un alone nebuloso, indefinito, non così drammatico ma molto distante dall’essere rischiarato e raggiante. Ora il futuro sembra parlare cinese: probabilmente più soldi, più intenzioni da veri magnati, ma sempre dei patti da rispettare e una situazione debitoria da risanare. Anche, anzi, soprattutto, un nuovo inizio, il rischio di dover ricominciare daccapo nel costruire un diverso assetto societario, nel modificare una guida tecnica che si ritrova dipendente di un nuovo padrone. Non è la fine del mondo, ma non è nemmeno così semplice. C’è il rischio che questi tre anni abbiano posto le fondamenta per un palazzo che non sarà mai costruito. E ora chissà se ci saranno delle nuove fondamenta, se e come cambierà il progetto del nuovo palazzo. Non tutti gli architetti sono uguali, ognuno ha la sua idea e il suo modo di progettare. La speranza è che quello del Suning Group Commerce possa essere il modo giusto, o almeno che risulti duraturo. Le squadre di calcio possono essere una fonte di affari, ma in Italia sono qualcosa di più, sono dei riti di culto, hanno una loro sacralità e non ci si può mica scherzare, prendendole e scambiandole con cotanta semplicità.
Il tifoso vuole sempre sognare, anche se poi si sveglia sudato o casca dal pero. Ebbene, oggi non è ancora giunto il momento di riprendere a sognare. Prima di tutto ci vorrà chiarezza.