Una settimana fa stava iniziando a delinearsi, almeno dietro le quinte, l’inaspettato, ma non troppo, ribaltone sulla panchina dell’Inter, con l’allontanamento pacifico e apparentemente consensuale di Roberto Mancini e la pronta chiamata di Frank de Boer, neofita assoluto del nostro calcio, per quanto uomo di grande esperienza di calcio internazionale. La scelta giusta? Sará il campo a dirlo. Frase più banale e gettonata non esiste, ma è la realtà dei fatti. Se de Boer dovesse fare meglio di Mancini, tutti saremo pronti a dimenticare questo teatrino tardivo, mentre in caso contrario, tante saranno le maledizioni lanciate verso Thohir e soci/padroni cinesi.
Il mio periodo di “ferie” in quel di Barcellona, con annessa visita al Camp Nou, teatro di una delle nostre ultime e mirabolanti imprese, che sembrano sempre più assumere i contorni di meteore dalla replica impossibile, mi ha impedito di esprimere subito la mia opinione, la mia perplessità su quanto stava accadendo e fosse già capitato in precedenza. Perché il fulmine non è certo apparso a ciel sereno, ma si è stagliato in tutta la sua potenza su uno sfondo di nuvoloni neri e minacciosi, che tanti e troppi tifosi hanno fatto forse finta di ignorare accusando le testate sportive di atteggiamento persecutorio e destabilizzante.
Eppure questa destabilizzazione si era insinuata davvero da tempo nei meandri della squadra e della società, tra le montagne di Brunico sino all’altra parte dell’oceano, per poi forse esplodere definitivamente in seguito a un soleggiato pomeriggio norvegese, dove sei goal di troppo hanno fatto capire come, forse, ci fosse già davvero bisogno di uno scossone. Attenzione, non lo dico io, ma lo ha dichiarato addirittura Ansaldi, uno che fa parte della famiglia nerazzurra da appena un mese. Evidentemente l’aria si era fatta davvero pesante e i giocatori se ne erano accorti, in bilico tra un allenatore poco convinto della situazione venutasi a creare attorno a lui e un capitano dalla moglie ingestibile, o forse gestita con accuratezza di nascosto, chissà.
Presupponiamo però, probabilmente a ragion veduta, che questo azzardo sia stato dettato da una situazione incresciosa di difficile gestione e non da un capriccio di uno o più dirigenti. Il cambiamento diviene una necessità solo nel momento in cui non si è fatto abbastanza in precedenza per mantenere inalterato lo status quo delle cose. Se Mancini se ne è andato senza troppi rimpianti avrà avuto le sue ragioni, che non ci accontentiamo affatto di ridurre al nome di Yaya Touré, l’appoggio di chi forse non vuole scavare troppo a fondo. Da un giorno all’altro l’ex mister si è ritrovato sulla busta paga di un nuovo proprietario con il quale tessere un nuovo rapporto, in realtà mai esistito, si è ritrovato svuotato di poteri gestionali che, in mezzo a qualche errore, avevano consentito di passare dall’ottavo posto al quarto. Si è ritrovato a colloquio con persone che non avevano più il potere di veto di prima, ma erano solo intermediari mandati da qualcuno troppo distante e affaccendato per occuparsi personalmente del nuovo giocattolo acquistato.
Cambiare tre volte proprietario in meno di tre anni, trovare in società più teste da mettere d’accordo, più culture da coagulare, più pareri da mediare, non sono delle semplici pratiche da sbrigare con superficialità, soprattutto se i diretti interessati distano migliaia di chilometri, si svegliano quando tu vai a dormire e parlano una lingua diversa. Nell’epoca della globalizzazione tutto può sembrare normale, e probabilmente lo è, ma le promesse di tanti soldi da investire non bastano a creare illusioni e a strutturare una società forte. Il gruppo Suning, dopo la famosa conferenza di Nanchino con annuncio, ha pensato bene di farsi vedere solo per tre giorni, tra l’altro a New York, come se fossero sufficienti per delineare le linee guida di una nuova stagione alle porte, senza mettere vicino alla squadra un uomo di fiducia, che magari li aiuti a inserirsi nella difficile realtà dell’Italia pallonara. Al momento la loro funzione sembra più quella di un bancomat da azionare solo quando serve, con Thohir e Bolingbroke che rimangono gli uomini di riferimento, anche se di farsi vedere più spesso non se ne parla, così come della possibilità di prendere di petto i tifosi e spiegare perché è stata presa una decisione come quella di pochi giorni fa. D’altronde, Mancini non era forse un fuoriclasse?
Moratti sotto la Saras, come da lui ammesso, non ha più alcuna voce in capitolo e, preso dalla passione del tifoso, arriva a dire cose che cozzano con il conto presentato dal mondo reale: “l’antijuve siamo noi”?!
Zanetti sembra quasi eclissato, spaesato, poco presente, una semplice figura mostrata ai tifosi per far vedere che un po’ di sano interismo viene preservato. Ma quanto la voce di un vero interista viene ascoltata in questo momento?
Come vedete non ho risparmiato nessuno, perché a un caos del genere non è mai piacevole assistere e perché esso non si genera dal nulla e per un semplice attore. Tanti e tutti sono i protagonisti che devono impegnarsi di più, metterci la faccia, capire che avere una squadra di calcio in Italia è mestiere arduo, impegnativo e totalmente dispendioso. La Juventus insegna che una programmazione seria alle spalle è base e fondamenta di ogni successo. Noi pensiamo che il nostro presidente e il nostro proprietario siano in grado di darla, ma bisogna darsi da fare alla svelta, senza rimandare decisioni, creare tormentoni e portare allo stremo cose, situazioni o persone cullandosi nell’incertezza.
Questo “fuzza Inda” lo vogliamo far risuonare per davvero?