43 anni iniziano ad essere davvero tanti, soprattutto se il numero che ti ha contraddistinto per una vita intera è il 23, diventato un segno tangibile di riconoscimento, un marchio di fabbrica, un simbolo identitario. E l’identità di Marco Materazzi la conosciamo tutti: difensore centrale mancino, forte tecnicamente e mentalmente, bandiera dell’Inter, squadra che lo ha reso grande, che lui ha contribuito a rendere grande, con la quale ha chiuso la carriera ad alto livello prima di reinventarsi allenatore-giocatore in una realtà periferica, ma emergente, come quella indiana. Un giocatore spesso sottovalutato e di cui si è enfatizzata troppo la fama da “violento e picchiatore”, ma che è stato poi capace di vincere tutto il vincibile, dando lustro incredibile a una lunga carriera, chiusasi forse troppo silenziosamente e senza il doveroso tributo.
Perchè purtroppo, al termine della stagione 2010/2011, a un solo anno dalla notte di Madrid, Marco se ne è andato quasi in punta di piedi, senza fare troppo rumore. Nessuna celebrazione, nessuna targa commemorativa, nessun applauso finale e nessun giro di consolazione sotto la curva come invece è capitato, giustamente, a qualche suo ex compagno ritiratosi dopo di lui. Eppure se lo sarebbe meritato, perché è stato forse uno degli esempi più limpidi di cosa sia l'”interismo”, quella straordinaria capacità di oscillare tra i fallimenti più atroci e duri da digerire fino alle esaltazioni più belle, ai trionfi più luminosi. La necessità di doversi rialzare dopo aver toccato il fondo, toccare il cielo con un dito e poi stare attento a ricadere ancora, perché non ci si può mai cullare un attimo su sé stessi.
Materazzi questo l’ha capito il 5 maggio 2002, quando le sue lacrime furono quelle di tutto il popolo interista, che aveva iniziato a credere troppo presto in quello scudetto ancora tutto da sudare, lo ha capito nei derby di Champions persi contro il Milan e impiegati a cercare di placcare un indomito Shevchenko. A ogni caduta roboante è però corrisposta una gioia irrefrenabile, anzi, forse le soddisfazioni sono state molto più numerose alla fine, tra un Mondiale vinto da inaspettato e indiscutibile protagonista, uno scudetto arrivato con la sua doppietta e una stagione in doppia cifra, un Triplete nel quale, pur giocando molto meno, si è fatto trovare pronto quando necessario, sia in campo che nello spogliatoio, dove ha sempre giocato un ruolo di indiscussa titolarità.
E poi c’era il personaggio, capace di incarnare lo spirito del tifoso, della sua voglia di rivalsa dopo anni bui e infelici. Il vestito bianco indossato in occasione del quindicesimo scudetto, la maschera di Berlusconi in un de
Un attaccamento che ha portato i tifosi a perdonargli molte cose, dal rocambolesco autogoal di Empoli fino alla sciagurata gara interna pareggiata col Siena nel 2008, quando per poco, togliendo a Cruz un paio di goal tra tiri respinti e rigori pretesi, quasi tolse uno scudetto all’Inter. Ma i tifosi lo sapevano che quello era il suo modo di fare, la sua forza, il suo attaccamento, che lo portavano a porsi sempre in bilico tra l’estasi e lo scoramento, Come l’Inter d’altronde, a cui le vie di mezzo sono sempre state straordinariamente ostili. Del resto sono pazzi entrambi, l’Inter e Materazzi. Sarà per questo che si sono voluti così bene.
This post was last modified on 19 Agosto 2016 - 19:20