Andrea Ranocchia non vive un momento personale molto tranquillo all’Inter, soprattutto per la condizione ambientale, dove i tifosi, sui social e non, non gli perdonano niente. Nonostante questo, però, il giocatore ha voglia di riscatto, come affermato qualche tempo fa “sta lavorando come un cane”.
In una lunga intervista al Corriere della Sera, Ranocchia tocca vari argomenti: la sua situazione personale, la fascia di capitano, l’addio di Mancini, e gli ultimi due ct della Nazionale: Conte e Ventura.
«Posso solo dire che era molto tempo che non ci mettevo così tanto impegno. Nella vita delle persone ci sono momenti in cui va tutto benissimo e si raggiunge l’apice. Poi arrivano le difficoltà. E lì puoi smettere di lottare e migliorare. Oppure fare qualcosa per andare più in là, verso il punto in cui sopporti tante cose non positive. Se uso questo termine è perché a me è capitato. E ho deciso di abolire la parola “negativo”».
Si sente un capro espiatorio delle difficoltà dell’Inter?
«Sento un pregiudizio su di me. Sembra che all’Inter non abbia vinto solo io. Ma il periodo negativo non è stato tutto e solo mio. È stato dell’Inter. In sei anni avrò visto passare un centinaio di giocatori. Oltre a tre presidenti e proprietari. Ma tutto questo cambierà».
Lei ha detto «sto lavorando come un cane», ma ha aggiunto «anche extra calcio». Viene da pensare a un supporto psicologico. Da questo deriva la certezza che le cose cambieranno?
«Da tre mesi vado in un centro in cui mi seguono dal punto di vista fisico e psicologico. È lì che tiro di boxe, per esempio. E poi c’è una persona con cui parlo. Non è uno psicologo. È laureato in Fisioterapia ma ha anche seguito corsi di mental training ed è un preparatore atletico. Parlare con lui mi è servito a capire che quasi niente nella vita è irrimediabile. E anche quello che lo è non è detto che sia un male. Puoi subire critiche, insulti, denigrazioni. Ma se lavori tantissimo, ti impegni, vesti una maglia che milioni di persone vorrebbero vestire (e sei pagato tanto per farlo), la tua famiglia sta bene: ecco, se hai consapevolezza di tutto questo, è meno difficile volgere in positivo le cose che non vanno»
Cosa è stato a spingerla a fare questo proprio adesso?
«Non c’è una ragione precisa. Una persona fa delle cose quando è pronta. Io per esempio ora so come fare a dare una mano, so che posso aiutare».
Per esempio Montolivo, un altro che sui social network non se la passa benissimo.
«A Ricky ho scritto subito dopo l’infortunio e i messaggi di chi gli augurava il peggio. Ha avuto una reazione da uomo. E da uomo intelligente. D’altronde, è il capitano del Milan».
Lei non lo è più nell’Inter. Perché?
«Non c’è stato un motivo, sono state tante cose, ma non mi va di dirle adesso. Forse a fine carriera».
Colpa di Mancini?
«No, anzi. Con me si è comportato bene, abbiamo sempre parlato molto».
Ma avevate capito che se ne sarebbe andato?
«Sì, in ritiro si intuiva che si era rotto qualcosa».
Lei è rimasto. Dopo aver esordito proprio a San Siro, col Bari, nel settembre 2009.
«Sì, contro la squadra del triplete. Ma quel giorno a Mourinho facemmo venire un gran mal di testa…».
In panchina c’era Ventura.
«Uno dei miei padri calcistici insieme a Conte. Hanno la stessa idea di calcio e identico modo di preparare le partite».
Sono diversi solo per come li vediamo in panchina?
«No, il calcio di Conte è più meccanico, quello di Ventura più ragionato».
Con Ventura dopo Conte, lei non ha smesso di pensare alla Nazionale.
«Sì, ma non è un’ossessione. È una possibilità».
Mentre l’obiettivo vero è?
«Che tante persone mi prendano da esempio. Non solo e non tanto per i successi, i gol, i tackle. Ma per quello che ho fatto nel calcio dal punto di vista della voglia di reagire. E vorrei che l’esempio servisse a chi fa altri lavori».
Come lo vede il futuro?
«Positivo. Ovviamente».