Ognuno ha quel che si merita e se, dopo 9 giornate di campionato, l’Inter è tredicesima in classifica con 11 punti su 27 disponibili, un attacco poco fruttuoso e una difesa perforabile con grande facilità da chiunque, significa che le prestazioni e gli sforzi profusi finora sono stati adeguati solo per un miserabile piazzamento nella metà bassa della classifica. Non ci si può appellare a episodi, sfortuna, giornate storte, periodi che vanno e vengono. L’Inter al momento è un punto interrogativo di dimensioni mastodontiche, è una squadra che dá, e di conseguenza ha, molto meno di ciò che potrebbe e varrebbe.
L’Inter è un caos creato ad arte da svariati artefici, messo a nudo in tutta la sua sconclusionatezza da partite inguardabili ed eventi che esulano dal campo di gioco, ma che fanno capire, con la medesima evidenza del rettangolo verde, che mancano le basi per creare parvenze solide di società e squadra.
La vittoria contro la Juventus e gli ultimi giorni di mercato estivo con i milionari arrivi di Joao Mario e Gabigol sono stati solo fumo gettato dinanzi agli occhi dei tifosi, che credevano di poter vedere incastrarsi tutti i tasselli del mosaico. Ma che il mosaico fosse già irrimediabilmente sgretolato lo si era capito in estate, con la telenovela Mancini conclusasi in maniera drammatica, sportivamente parlando, ma soprattutto in maniera tardiva, lanciando un forse sprovveduto de Boer in una situazione intricatissima dalla quale non riesce ancora ad uscire dopo due mesi abbondanti trascorsi. Purtroppo i tifosi interisti non hanno ancora avuto il piacere di capire come si sia rotto il legame tra Mancini e la vecchia proprietà, o come mai non sia mai scattata la scintilla con quella nuova, così distante da sembrare ancora un corpo estraneo. O come mai si sia giunti alla decisione finale solo dopo mesi di estenuante e sconcertante tira e molla, con Mancini che aveva mostrato palesi segni di insofferenza già durante il ritiro di Brunico e prima di partire per la tournée americana.
Se sia stato più per colpa di Yaya Touré o Kia Joorabachian non lo sappiamo, ma la certezza è stata perdere, a poco più di una settimana dall’inizio della stagione, un allenatore di altissimo profilo internazionale, navigato nella costruzione e nell’assemblamento di squadre vincenti, vedasi la sua prima Inter e il Manchester City, per affidarsi a una persona, e a un tecnico, totalmente digiuni di calcio italiano, impregnati di una mentalità e di un modo di fare calcio in maniera differente, dove l’insegnamento richiede tempo e metodologia, dove l’ansia e lo stress del risultato sono meno pressanti, dove l’indicazione su un movimento vale più di un urlo in faccia negli spogliatoi per farti capire dove e come stai sbagliando. Oltretutto, incredibile aggravante societaria, nessuno ha avuto l’intuizione, che sarebbe stata molto poco geniale, di affiancargli una persona che conoscesse le esigenze dell’ambiente, la lingua, il modo di vivere e concepire calcio in Italia, una persona che fosse in grado di cementare lo spogliatoio nelle difficoltà, trasmettendo coesione attraverso il rispetto e il valore della maglia che si indossa.
Ma come può una società creare sicurezza attorno a una squadra e a una guida tecnica nel momento in cui essa stessa è chiaramente orfana di una leadership forte, presente, autoritaria? L’Inter ha un proprietario\bancomat piuttosto lontano e un presidente, apparentemente operativo, ancora più ad Est, forse impegnato già a sbolognare, che non si vede e sente da tempo immemore. Forse qualche parola pubblica durante il disastro delle ultime settimane non andava spesa per tutelare con vigore quanto si era deciso prima e mettere a tacere voci che rischiano comunque di essere tediose e fastidiose per quanto si vogliano ignorare? Invece no, silenzio totale e tutte le responsabilità sulle spalle di un Ausilio che ha la propria peculiarità nel comprare e vendere giocatori, forse non nel risolvere e mettere pezze di emergenza a ogni intoppo, vedasi caso Icardi. O di uno Zanetti che, ci perdoni, ha forse bisogno al suo fianco di qualche fuoriclasse dirigenziale, come accadeva in campo, quando Ronaldo, Ibrahimovic ed Eto’o gli hanno permesso di alzare tante di quelle coppe, per le quali senza di loro sarebbe stato difficile gioire.
Possibile che questa società nuova non abbia pensato a una figura forte con ampi poteri in grado di governare le varie componenti? Un Leonardo che, così bene, ha reso il PSG un colosso europeo ben organizzato e appetibile. Anche perché Bolingbroke e Gardini paiono esistere, ma dinanzi a un microfono a spiegare due cose compaiono raramente.
Allora continuiamo a prendercela con quel brocco di Kondogbia che entra in campo senza la voglia di bruciare l’erba ma con tutta la mollezza immaginabile di questo mondo, con l’inadeguatezza latente di Nagatomo, con le “pollate” di Santon, l’inconsitenza di Perisic e Brozovic, l’involuzione di Murillo, l’inutilità di palle al piede come Melo e Ranocchia, con Gabigol che non entra nemmeno per sbaglio. Certo, loro sono tutti responsabili in egual misura degli scempi che si vivono con, purtroppo, grande frequenza, ma il problema è che alle loro spalle non sembra esserci qualcuno in grado di richiamarli all’ordine, di fargli capire che le cose in un certo modo non debbono continuare, di fargli sorgere una dignità interiore che imporrebbe di lottare come ossessi su ogni pallone e contro qualsiasi avversario per dimostrare di meritare soldi, maglia, apprezzamento incondizionato e vari onori del caso. Ecco perché, sconfitta dopo sconfitta, aumentano lo sconcerto e l’amarezza, ma bastano poi 5 minuti per scoprire come forse tutto era già preventivabile nel nostro interno, seppur senza volercelo ammettere a chiare lettere.
Il tifoso interista è un inguaribile sognatore per definizione, ma se inizia a pensare che al peggio non possa mai esserci fine, allora significa che bisogna davvero iniziare a preoccuparsi. Noi infatti già lo siamo, da molto.