Gianfelice racconta Facchetti: “Sembrava nato per lo sport, desiderava che noi figli…”

Gianfelice Facchetti scrive un ritratto inedito del padre Giacinto, pubblicato dal Tirreno. Un ritratto ricco di amore per quell’uomo, al quale tutti noi guardiamo con venerazione da sempre. Un grandissimo calciatore, un grandissimo uomo che sui campi di calcio ha dato tutto ma che amava lo sport in maniera totale. E’ così che ce lo ricorda Gianfelice

 “Che fosse in uno stadio, su una pista di atletica o sul parquet di un palazzetto, era in armonia con ciò che stava facendo, sembrava fosse nato per lo sport qualunque esso fosse e in ogni occasione che gli si presentasse davanti, si dedicava con lo spirito puro del principiante, quello di chi non si stanca mai di imparare e migliorarsi.”

IL TENNIS E FACCHETTI

“Anche con il tennis era andata così! Dopo aver smesso di giocare a calcio, aveva cominciato daccapo con la racchetta e continuò a giocarlo in ogni stagione dell’anno con curiosità e passione fino a pochi mesi dall’addio. In quel viaggio ha avuto compagni e rivali straordinari, amici ostinati come lui per sfide e rivincite da perdere il conto, volti e voci spesso familiari da una parte all’altra della rete. La giornata di vacanza perfetta contemplava una partita di bocce, una a scopa d’assi e tre set di tennis. Sulla terra rossa c’erano alcuni tornei a cui non avrebbe mai rinunciato, semplici appuntamenti con il tempo a cui era affezionato perché sapevano di festa, attimi in cui si congedava per una parentesi sudata dai mille impegni della sua quotidianità, ancora libero di giocare e lasciare sul fondo oltre la riga le tante responsabilità che lo riguardavano. Fu proprio la voglia di correre sulla terra rossa senza un fastidio al ginocchio, a convincerlo a operarsi: scoprì di avere a che fare con qualcosa di grande perché trovò la pallina più insidiosa di sempre.”

 LA SACRALITA’ DELLO SPORT

 “Della sua ultima estate ricordo i pomeriggi al tennis di Selvino, “buen retiro” di agosto, giocando a carte con la vita, un occhio a denari, coppe e bastoni, l’altro verso i campi pochi metri più in là, sognando di presentarsi al servizio il prima possibile, elegante e pettinato come sempre. Non è solo un’idea forte di calcio quella che ci ha lasciato e di cui è stato testimone fortunato insieme con la sua generazione, papà ci ha messo davanti agli occhi anche un’idea possente di sport visto e vissuto fino in fondo come una delle esperienze più belle e emozionanti che la nostra esperienza terrena possa regalarci. Guardava tutto con stupore e l’ammirazione di chi conosce la fatica per esserci a costo di sacrifici e allenamenti, soffriva e gioiva per la nostra bandiera a un’Olimpiade di atletica o un Mondiale di calcio, si arrabbiava se qualcuno di noi figli si fosse concesso a qualche commento banale da bar. Senza dirlo a parole, rintracciava in tutto lo sport, calcio compreso, qualcosa di sacro, desiderava che anche noi fossimo educati a questo: «Annusa i fili d’erba, certi giorni profumano di cielo!».”

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