“Non è guidare una Lamborghini Murcielago. E’ essere una Lamborghini Murcielago”. Lo storyteller più famoso d’Italia, Federico Buffa, descrive così Ronaldo Luis Nazario Da Lima, detto il ‘Fenomeno’. E non poteva descriverlo meglio. Dalla favela a nord di Rio al tetto del mondo: tutto a cento all’ora. Tecnica e potenza a velocità supersonica: dal 1996 al 1998 è stato immarcabile; era “E.T.”, “Inumano” e per fermarlo “Bisognava sparargli” raccontava l’allenatore del Logrones Miguel Angel Latina. Barcellona, Inter e Real Madrid hanno beneficiato delle sue qualità. Con il Brasile ha vinto due Copa America e due Mondiali, diventandone capocannoniere. Così alla fine, più dei difensori, a fermarlo sono state le sue ginocchia, troppo fragili per controllare una potenza fisica dal valore inestimabile.
DA BENTO RIBEIRO A SIR BOBBY ROBSON: IL PELE’ DAL SORRISO D’ARGENTO
Periferia a nord di Rio de Janeiro. Terra strappata al fiume ed alla foresta, una lunga ferrovia e decine e decine di case fatte di lamiera: è la favela di Bento Ribeiro. Al numero 114 di Rue General Cesar Obino nasce, il 18 settembre 1976, Ronaldo Luis Nazario da Lima. Per tutti, ma soprattutto per il fratellino Nelinho, Dadaldo. Come tutti i giovani brasiliani inizia a giocare a calcio, piedi nudi e una superficie che non è cemento nè erba, ma sterrato, polveroso e duro sterrato. Partì con i guanti da portiere ma venne spostato in attacco: e fu subito spettacolo. Il Cristo Redentore e il Maracanà: sacro e profano di una città; una delle sette meraviglie del Mondo e lo stadio per eccellenza; la sua torcida è il sogno di ogni giovane Carioca: è la casa del Flamengo, squadra del cuore di Ronaldo. Le sue giocate di futsal non passano inosservate agli scout rossoneri: viene selezionato per un provino, convince gli allenatori ma il biglietto dei sei autobus costa troppo e le magre casse del club non permettono investimenti costosi. Arriva il Cruzeiro, ma soprattutto entra nella vita del giovane dal sorriso d’argento una strana coppia: Alexandre Martins e Reinaldo Pietta; di giorno impiegati in banca e di sera talent scout. Lo notano, comprano il cartellino per 7.500 dollari e poi lui fa il resto: sono 56 gol in 54 partite con le Volpi, vince USA ’94 senza però giocare nemmeno un minuto ed ottiene un biglietto di sola andata per Eindhoven. “Cosa c’è ad Eindhoven?” chiese il Fenomeno a Romario. “Freddo” rispose il Baixinho. “E poi?”. “La Philips. Solo freddo e la Philips“. Ma a riscaldare il clima ci pensano mamma Sonia, Nadia, la sua prima fiamma, ed il pubblico del Philips Stadion: Eredivisie in bacheca, 30 gol in 32 partite ma anche il primo infortunio serio; i muscoli pesano troppo, i tendini non riescono a reggere tutta quella potenza ma Sir Bobby Robson chiama. Barcellona e la Catalogna lo aspettano, lui perde l’oro Olimpico ma si presenta in Liga decollando verticalmente. 7 gol, 2 voli oceanici in 7 giorni. “Extraterrestre!” esulta la prima pagina di Marca. In Spagna rimane un solo anno: Pichichi con 34 gol, Fifa World Player e Coppa delle Coppe. Il Fenomeno è pronto a sbarcare sul pianeta Inter.
MILANO, MORATTI ED IL CALVARIO INFINITO
La storia non si fa con i ‘se’ e con i ‘ma’. Nessuno saprà mai come sarebbe andata a finire se quel tendine avesse retto. Probabilmente la bacheca di Corso Vittorio Emanuele avrebbe qualche trofeo in più. Il ventenne più forte del globo salutava i festanti tifosi interisti da un balcone in pieno centro a Milano. Un sorridente Moratti esibiva il suo più grande trofeo, un giocatore che “Era un po’ più uguale degli altri”: era il 25 luglio del 1997. Il primo anno in maglia nerazzurra è l’apoteosi: si sblocca contro il Bologna, da lì in poi sarà un’escalation. Tripletta magistrale al Piacenza, la Nord che canta “Il Fenomeno ce l’abbiamo noi”, assist al bacio per Djorkaeff nella vittoria contro la Juventus, spazzato via il Milan con un sontuoso gol del 2-0 dove elude l’intervento di Sebastiano Rossi con un dolcissimo pallonetto. L’avvocato Prisco gongola, Milano è ai suoi piedi. Cancella la Roma con una doppietta, e tre giorni dopo nella steppa di Mosca danza come una ballerina del Teatro Bolshoi spaccando a metà la difesa dello Spartak. Episodio di Ceccarini a parte, dove Ronaldo griderà senza mezzi termini al furto: “Ci sentiamo derubati. A calcio si gioca in 11 contro 11, non in 11 contro 12. Il calcio deve essere gioia!”, nel salotto del Parco dei Principi sfodera l’ennesima prestazione da Oscar e regala a Moratti il primo trofeo del suo regno: la Coppa Uefa. Il Mondiale di Francia lo attende come protagonista assoluto, arriva in finale ma a causa di una misteriosa perdita di coscienza in hotel e di un enorme problema di ipertrofia muscolare consegna la coppa in mano a Deschamps e compagni. Il calvario inizia nel novembre del 1999: Inter-Lecce, una maledetta zolla di San Siro gli provoca la lesione del tendine rotuleo, viene operato e rientra la stagione stessa, contro la Lazio. Doppio passo pulito, veloce, il difensore è già praticamente per terra. Poi arriva un botto, un suono sordo accompagnato dalle urla “Mamma! Papà!”. La diagnosi è orribile: rottura del tendine rotuleo del ginocchio, il Fenomeno ritorna l’anno successivo, nel 2001. Trova il gol contro il Brescia in coppia con l’amico di sempre Bobo Vieri. Ma i rapporti con Cuper sono tesi, l’allenatore argentino non lo vede in forma e l’epilogo triste del 5 maggio lo costringe a lasciare la sua Milano, i suoi tifosi ed il suo presidente. Diventa un galacticos, vince il mondiale nippo-coreano ed il suo secondo pallone d’oro. Le lacrime versate all’Olimpico sono solo un lontano ricordo per il ragazzo di Bento Riveiro. Il paese dei Balocchi madrileno gli permette di sfoderare altre prestazione fantascientifiche, condite da gol e assist impressionanti. Ritornerà in Italia, sempre a Milano, dall’altra sponda del Naviglio. Segnerà proprio sotto la Nord, con la mano alle orecchie. Forse non è stato un addio come si deve, quello tra tifosi nerazzurri e Ronaldo. Ma chi, come il sottoscritto, è riuscito a vedere le sue giocate continuerà a reputare Ronaldo un “patrimonio interista”, perchè il Fenomeno lo abbiamo sempre avuto noi.