Eredità culturale. La genetica intrecciata allo sport, un magnifico numero 10 granata e suo figlio: il ‘Sandrino’, magro, due occhi scuri come il padre e la stessa passione. Quella per il calcio. Il 4 maggio 1949 Sandro Mazzola aveva poco più di 4 anni; di suo padre Valentino e dell’incidente sulla collina di Superga ricorda poco: qualche foto mano nella mano, la maglietta del Torino troppo larga e la folla del Filadelfia. Eredità calcistica e culturale: come Mazzola tanti altri calciatori hanno dovuto fare, o stanno facendo i conti con questo tipo di patrimonio, che sempre ha creato e creerà dibattiti. “Era meglio lui o il padre“, lo si domandava di Paolo Maldini e lo si chiede ora ad Enrico Chiesa, papà di Federico.
“Tutti parlavano di mio padre, tanto che a dodici anni mi venne voglia di dedicarmi alla pallacanestro perchè non ero certo di riuscire a reggere il peso della sua ombra, mio padre me lo sono goduto pochissimo“. Il peso di un’eredità scomoda. Qualche anno più avanti, Micheal Jordan, stella dei Chicago Bulls lo definì ‘the burden‘, il fardello. Quello che ogni figlio di un campione leggendario deve portare, come Ercole fece con la Terra. Le spalle strette di Sandro, e la maglia numero 10 nerazzurra, non solo hanno saputo accettare questa sfida, ma tra i Navigli ed il Duomo, quando si parla di Mazzola, ora si pensa solo al piccolo ‘Sandrino’.
UNA STORIA DI ‘VELENO’ E DI PARAGONI
L’infanzia del piccolo Sandro non è delle migliori: alla morte del padre viene continuamente sballottato un po’ qui ed un po’ dall’altra parte; la madre biologica e la compagna di Valentino ingaggiano un duello giudiziario per il risolversi l’eredità (economica); in questo contesto conosce il suo fratello minore: Ferruccio. La vita dei due ragazzi non è mai stata in sintonia: Ferruccio possiede le stesse qualità del fratello, è molto veloce ed ha un fisico piuttosto esile. Il carattere particolarmente scorbutico non gli offrirà la stessa carriera del maggiore: Venezia, Fiorentina e soprattutto Lazio furono le sue squadre principali. Sin da giovane, Sandro, si fa notare per le ottime potenzialità: la tecnica di base, unita all’agilità ed al carisma lo portano tra le fila della Primavera allenata da Giuseppe Meazza. A scoprirlo giocare, tra le Colonne di San Lorenzo e Porta Ticinese, fu però un altro grande nerazzurro del passato: Benito ‘Veleno’ Lorenzi. “Era un personaggio da romanzo. Cattolicissimo, non perdeva una messa. Però in campo si trasformava: provocava Boniperti chiamandolo ‘Marisa’, con Charles metteva in dubbio la moralità della Regina” racconta un divertito Mazzola. Sotto queste ali protettive il giovane centrocampista, dalle spalle strette, si apprestava ad incontrare lui, l’altro.
LA GRANDE INTER E LA STAFFETTA MONDIALE
La prima partita da interista coincise con l’ultima di Boniperti, il grande capitano juventino:”Lo sai che di nascosto andavo a vedere le partite di tuo padre? Era il più forte.” Lo accolse così la leggenda bianconera: la partita finì 9-1 per la squadra di Agnelli, Sivori ne fece 6 ma l’unica marcatura dei giovani nerazzurri fu del protagonista di questa storia. A quella presenza ne seguirono altre 416 e più di 100 reti; quando conobbe l’altro, ovvero Helenio Herrera, arrivarono anche i trofei. “Il primo fu a 21 anni, la finale di Champions League contro il Real Madrid. All’ingresso mi incantai a guardare Di Stefano. Non ho mai visto un calciatore più forte, tranne forse Ronaldo prima dell’incidente. E poi tutti mi dicevano che ricordava mio padre: salvava un gol sulla linea e andava a segnare. Luisito Suarez, il vero leader della Grande Inter, mi richiamò: ‘Resti a fissarlo o vieni con noi a giocare?’ “. Il primo trofeo Continentale della storia nerazzurra fu condito dalla doppietta del figlio d’arte: “Andai a chiedere la maglia a Di Stefano, ma prima mi fermò Puskas. Mi disse: ‘He jugado con tu padre. Tu eres como el‘, non era vero ma non sono mai stato così felice in vita mia”.
Fu protagonista in tutti i trofei vinti dalla Grande Inter di Herrera: 2 Coppe dei Campioni, 2 Coppe Intercontinentali e 4 scudetti; il Mago disse di lui che ‘Riusciva a trattare il pallone come pochi, sapeva attaccare e difendere. E in più faceva gol da favola’. Parallelamente alla carriera con la maglia dell’Inter, Sandro Mazzola scrisse pagine importanti anche con la maglia della Nazionale. Celebre fu la staffetta tra lui e l’altro numero 10 di Milano, Gianni Rivera. Dal centrocampo in giù le qualità di ripiegamento e di ripartenza erano intrinseche nel figlio di Valentino, ma quando c’era necessità del passaggio illuminante o della giocata estemporanea, il CT Valcareggi non poteva fare a meno del capitano milanista. Con Valcareggi e la nazionale arrivò l’unico Europeo nel 1968 e la finale del Mondiale di Messico 1970, persa contro il Brasile di Pelè.
La carriera termina a fine stagione 1976-1977. Mazzola ha quasi 35 anni. Il suo spessore umano e la sua competenza calcistica sono doti che il neo-presidente interista Fraizzoli non vuole lasciarsi scappare ed infatti affida a lui le sorti del club. Vince, da dirigente, campionato e Coppa Italia, raggiunge anche una semi-finale di Coppa dei Campioni. Torna nel 1995 quando Massimo Moratti acquista il club. Il figlio di Angelo riunisce tutta la Grande Inter e nomina Mazzola DS: una delle prime operazioni fu quella di portare Ronaldo a Milano, “Era davvero il Fenomeno, quando decideva di segnare prima o poi ci riusciva“. Fu l’ultimo regalo fatto ai Moratti, poi le strade si divisero, per sempre. Contattato dalla Rai, divenne la voce tecnica di Germania 2006. Emozioni, passione ed intelligenza calcistica. Proprio come in campo. Sigaro ed ironia per un campione senza eguali.
L’eredità calcistica è una cosa seria. Valentino sarebbe stato fiero di te.