Chivu: “Ho dato davvero tutto per l’Inter e ne porto i segni sul corpo”

A distanza di quasi 10 anni, resta ancora vivo nel pensiero di ogni interista la finale di Madrid del 22 maggio 2010. Ma tra i goal di Milito e le giocate di Sneijder va ricordato anche chi ai nerazzurri ha dato anima e corpo come Cristian Chivu, che oggi dedica una splendida lettera ai tifosi interisti.

IL CASCO, LA CHAMPIONS E UNA VITA FATTA DI SACRIFICI

Non si può parlare della carriera di Chivu senza partire da quello che è stato l’evento che ha segnato la sua carriera in nerazzurro. E’ il 6 gennaio 2010, a Verona il Chievo ospita l’Inter. A pochi minuti dall’inizio del secondo tempo accade l’impensabile. Palla alta, Chivu e Pellissier saltano ma il difensore impatta la testa dello scaligero finendo a terra: “Non riuscivo a muovere il braccio sinistro. Era paralizzato. Non ho mai perso conoscenza e mentre mi mettevano sulla barella, mentre mi portavano fuori dal campo, la mia testa funzionava ancora, nonostante la botta tremenda“. Da quel momento inizia il calvario per il rumeno, che tra lunghe operazioni e convalescenza forzata riesce a ritrovare il campo.

La carriera di Chivu però è sempre stata fatta di sacrifici fin dagli esordi. Il difensore infatti è figlio di Mircea Chivu, calciatore della Serie A rumena: “Mio papà era un calciatore e poi è stato il mio allenatore. Ma non crediate: non ero un raccomandato. Mi allenavo con quelli più grandi di me, dovevo dare il massimo per tenere il loro passo. E papà non mi scontava nulla. Al mattino andavo a scuola, poi al pomeriggio – anche se la strada che dovevamo fare era la stessa – mi faceva prendere i mezzi pubblici, mentre lui guidava fino al campo. Era uno dei suoi modi di insegnarmi l’autogestione, il sacrificio e anche l’ambizione“.

DALLA ROMANIA ALL’ITALIA

La carriera in Romania decolla e così arriva la chiamata in Olanda, alla corte dell’Ajax, dove Koeman riconosce le potenzialità del giocatore nominandolo addirittura capitano. Poi il passaggio in Italia direzione Roma per poi approdare all’Inter nella stagione 2007. Lo scudetto con Mancini e poi l’arrivo del tecnico portoghese con cui è arrivata la definitiva consacrazione: “Mourinho è un duro, pieno di tenerezza. Non mi aspettavo certo, 77 giorni dopo Verona, di tornare in campo da titolare, a San Siro. Ma José mi stuzzicava già da un po’. Mi aveva chiesto se volevo andare a Londra per Chelsea-Inter, ad esempio. Era un modo per stimolarmi, per farmi rimettere in pista“.

LA CONSACRAZIONE

Le sedute ad Appiano, le ansie e la fatica hanno tenuto compagnia al difensore nella sua carriera nerazzurra. Chivu pur di giocare avrebbe fatto anche il portiere così come accadde nella gara di ritorno contro gli alieni del Barcellona: “Non dovevo scendere in campo, ero tranquillo sul lettino, negli spogliatoi”. L’infortunio di Pandev però complica i piani nerazzurri e così arrivà l’occasione: “Uscii da solo, con oltre 90mila persone che mi fischiarono per tutto il riscaldamento. Un bell’ambientino. Mourinho mi disse che avrei dovuto giocare alto nel 4-2-3-1. Dovevo badare solo a Dani Alves. E a proposito di duttilità: dopo l’espulsione di Motta, andai a fare il mediano. Che impresa per me, quel Barcellona resta una delle squadre più forti di sempre“.

Finalmente arriva maggio, lo scudetto con l’Inter ipotecato dopo una lunga sfida contro la Roma e la vittoria nella finale a Madrid che passa anche da quel casco che da quel gennaio lo ha accompagnato in tutte le partite ma non nei festeggiamenti per la vittoria: “L’ho buttato dentro alla Champions. Assieme al caschetto, in quel trofeo, ci ho messo tutto: le paure, le incertezze, i sacrifici che avevo affrontato. Finiva tutto, con la realizzazione del sogno più bello. E le lacrime di quel momento erano di gioia, ma anche di liberazione. Era anche l’aver raggiunto un meritato momento di rilassamento, fisico e mentale“.

Ora Chivu allena le giovanili nerazzurre, e forse nessuno meglio di lui può insegnare a dei ragazzi come guadagnarsi il rispetto del popolo nerazzurro: “Ho dato davvero tutto per l’Inter, a tal punto dal portare i segni sul mio corpo. Indelebili, dentro e fuori. Forse i tifosi nerazzurri non mi hanno mai visto sotto la curva a baciare la maglia, ma hanno visto i miei sacrifici, i miei sforzi per recuperare dagli infortuni, per essere sempre utile alla squadra e ai compagni“.

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