Massimo Moratti ha rilasciato una lunga intervista a DAZN, nel corso della quale ha raccontato aneddoti, episodi e retroscena avvenuti nei suoi anni di presidenza all’Inter. Queste le sue parole:
Sull’acquisto del club:
“Ricordo che, all’angolo della strada dove abito, stavo parlando con l’avvocato Prisco e mi disse: ‘Se magari provi a vedere se puoi diventare presidente, sarebbe molto interessante per noi”. Io invece di dire di no dissi: “provo a vedere’. Lui insisteva, ma pensavo di dire una cosa così. Tempo una o due settimane invece ero presidente. Sono quelle cose che pensi da ragazzo, come possibilità remotissima. Siccome è una pazzia, se la prendi come decisione deve essere in fretta, ma se la prendi con buon senso non la prendi mai”.
Su Ronaldo:
“Lo avevo conosciuto perché era venuto a trovarmi a Milano con la sua fidanzata quando era al Psv. Era il numero uno in quel periodo. Ho pensato che ci fosse la possibilità di tentarla. Io ero appena arrivato, da un anno. Credo che gli altri presidenti non pensassero nemmeno che potessi farlo, credevano forse che fosse impossibile”.
Sul 5 maggio 2002:
“La sveglia del 6 maggio è quella in cui dici che è successo qualcosa di inaspettato e terribile, all’ultimo minuto e anche per colpa nostra, per incapacità di affrontare l’ultimo ostacolo. Mi sentivo in colpa verso i tifosi. La sicurezza della mia squadra mi aveva fatto arrabbiare, perché erano convinti che la cosa fosse facile. Mi ricordo che “prefesteggiavano” l’eventuale vittoria e la cosa non mi piaceva moltissimo. Feci un gravissimo errore a non scendere negli spogliatoi tra primo e secondo tempo, ma perché ero avvilito in maniera terribile. Nel secondo tempo entrando avevano capito com’era la cosa ma lo stesso tenevano un atteggiamento come se fosse facile. E infatti finì esattamente al contrario con la Lazio che passeggiando e senza fare cose eccezionali ci batté 4-2. Poi magari a Roma non vedi bene la partita ma vedi bene le panchine, quindi vedevi Ronaldo disperato e gli altri giocatori che consideravano come un ostacolo insuperabile. Siamo passati dall’eccessiva sicurezza alla disperazione. Chiaro che la partita andava persa. Questo mi ha aiutato a capire che quella era una situazione in cui non avevo troppe difese, dovevo solo chiedere scusa. Così ho fatto e abbiamo fatto tutti, tutta la squadra. E poi quando tocchi il fondo c’è qualcosa che ti spinge e ti dice che da adesso in poi andrà certamente bene. Quel periodo ho saputo anche apprezzarlo. É una preoccupazione costante ma a cui ti abitui e viene lenita dal fatto che hai la passione. Quella passione ti fa dire andiamo avanti e facciamo qualcosa di nuovo e di straordinario. Ti senti sempre in dovere, l’importante è sentire sempre il senso del dovere che ti mette in condizione di essere sul pezzo. Ma vivi sempre volendo rispondere alle aspettative dei tifosi”.
Sul primo scudetto:
“A Siena sembrava di essere in uno stadio piccolissimo con una bolgia. Una festa meravigliosa, i giocatori erano felicissimi. Era una rivincita che si prendevano nella loro professione. C’era tutto questo più la felicità dello scudetto. Siena è di una bellezza tale… Abbiamo sempre scelto posti molto belli dove festeggiare”.
Su Mancini:
“Un bel giorno ricevo a Natale da parte di Mancini una maglia di quelle vecchie, di lana, con uno scudettone grossissimo e un biglietto: ‘Se vengo all’Inter rivinciamo’. Rimasi abbastanza convinto di puntare su Mancini. É stato fin da subito un volere da giocatore. Ne abbiamo anche parlato assieme ma poi il presidente della Sampdoria giustamente mi disse che non si permettevano di venderlo. Ma siamo sempre rimasti legati. Era un ragazzo, aveva appena smesso di giocare. Aveva tutta l’emozionalità dei giocatori. Perdemmo con la Lazio e me lo trovai nello spogliatoio che piangeva in un angolo e questo faceva capire che ci teneva tremendamente a far bene. Ho seguito la sua storia all’Inter con affetto, ci tenevo moltissimo avesse successo”.
Su Mourinho:
“Il primo incontro con Mourinho fu a Parigi e lì c’è un portiere di questa casa che è portoghese ed è un po’ la capa di tutte le portinerie di quella via. A un certo punto mentre eravamo lì a mangiare formaggio con Mourinho suonò la porta e questa signora entrò facendo finta di chiedere se c’era bisogno di qualcosa e poi vide Mourinho. Disse: “Oh José”, poi ha preso e se n’è andata. Quando una cosa deve essere segreta, il segreto di una portinaia si sa perfettamente”.
Sullo scambio Ibra-Eto’o:
“Nasce da un incontro con Laporta. Parlando delle nostre squadre mi chiede com’era Ibrahimovic e gli dissi che era il più grande che si potesse immaginare. Un giocatore completo, dove andava vinceva il campionato. Mi disse se avrei potuto venderlo e dissi: ‘Non ci penso neanche’. Allora mi fece delle proposte e dissi: ‘Se mi dici quattro volte tanto non so se ti dico di sì’. In ufficio mi arrivò una telefonata di Laporta e mi disse che voleva passare da Milano perché aveva capito che avevo ragione. Nella sorpresa mi dissi che magari mi avrebbe davvero offerto quattro volte tanto. Così è stato. Si è presentato in casa e sul portone mi ha detto: “L’offerta è questa”. Dissi: “Per me va benissimo” e ci siamo stretti la mano”.
Sulla vittoria della Champions:
“Il giorno prima della finale vivevo veramente col terrore. Mi dicevo: ‘Mi sta venendo una colica renale e domani non vedo la partita…’. E allora ero lì che facevo il sacrificio classico. ‘Non vado alla partita, l’importante è vincere’. Poi fortunatamente non mi venne del tutto e alla partita andai. A Madrid quello che era meraviglioso era vedere la risposta dei tifosi, una risposta commossa, non solo di grande felicità ma un pianto generale per la felicità che generavano i giocatori. La prima cosa che pensavi fu naturalmente legata a mio padre e al fatto che il destino avesse voluto che le Coppe dei Campioni fossero legate alla nostra famiglia ed era una cosa altrettanto bella e che mi faceva piacere. La differenza tra l’alba del 6 maggio e quella di Madrid è notevole. C’era la decisione di andare a Milano o stare lì. Mi sembrava antipatico pensare che non essendoci Mourinho andavo io a prendermi tutti gli onori di una vittoria che era da dividere. Io me ne rimasi a Madrid e fu molto rilassante perché era piacevole poter camminare pensando che era andata, era successo qualcosa di bellissimo e te lo stavi godendo per conto tuo, con la famiglia e che il mattino dopo sarebbe stato meraviglioso. Poi la festa continua per qualche giorno”.