Il quattro Settembre 2006 ci lasciava Giacinto Facchetti. Bandiera dell’Inter e della nazionale italiana, con queste due squadre vinse molto, vinse tutto. Con la maglia nerazzurra, una seconda pelle, vinse 4 scudetti, 2 coppe Campioni e 2 coppe Intercontinentali mentre con la divisa azzurra vinse un Europeo.
Nato a Treviglio il 18 Luglio del 1942, da padre tranviere e madre casalinga, Giacinto era un “terzino spilungone” come pochi se ne erano visti prima. Amava difendere ma anche impostare e nondimeno vedeva la porta come un attaccante. Era un leader vero, il simbolo spontaneo di una rivoluzione gentile, epocale. El Chipe, soprannominato così per un errore di Helenio Herrera che una volta lo chiamò Cippelletti, era l’eroe del popolo. Ciononostante egli voleva essere per i suoi tifosi un esempio e non un simbolo. Pensava infatti che i simboli dividono mentre gli esempi no: si possono seguire, amare, comprendere o rifiutare ma non possono dividere. A dimostrazione di questo, passò una vita da calciatore e poi da dirigente nel cercare di migliorare e innovare quel posto che lo aveva reso leggenda: il calcio.
Aneddoti di vita..
Da calciatore Facchetti passò ogni situazione possibile; conosceva lo spogliatoio come le sue tasche, i suoi compagni lo amavano e anche i suoi tifosi. A dimostrazione della sua grandezza vi racconterò un aneddoto. Nella stagione 1977/78 el Chipe si ruppe 3 costole in un Inter Juve. Essendo già avanti con l’età(36 anni) qualsiasi altro calciatore avrebbe lasciato passare una stagione per recuperare la condizione. Il grande problema è che in quell’anno si giocavano i mondiali. Ci mise mesi e mesi per recuperare dal brutto infortunio eppure Bearzot lo aspettò e gli disse che sarebbe stato il capitano della nazionale. Per testare la sua condizione, Facchetti, rientrò all’ultima partita di campionato che fu anche la sua peggiore della carriera. Uscito dal campo annunciò il suo ritiro dal calcio giocato dicendo che non poteva essere d’aiuto per il mondiale perché sarebbe stato solo un peso. Gli bastò una sola partita per capire che doveva farsi da parte per far giocare un altro compagno più giovane ed in forma di lui; seppe dire basta e rifiutò un mondiale perché capì che non era in grado di aiutare i suoi compagni. Per me questo significa non solo essere un grande campione ma essere un grande uomo che mise gli altri prima di lui, che mise il noi prima dell’io.
Un uomo gentile
Il capitano dei capitani, prese il cartellino rosso solo una volta in tutta la sua carriera e tutti lo raccontano come un uomo che aveva grande rispetto di tutti. Quando l’arbitro gli mostrò il rosso colpì la reazione che ebbe il pubblico. Si alzarono tutti in piedi ad applaudire il proprio capitano, disorientato da una situazione così insolita eppure orgoglioso nella corsa verso gli spogliatoi. In quell’applauso ci fu unione, sentimento, perché il popolo riconosceva la grandezza ad un uomo che se la meritava tutta.
Giacinto amava essere definito un “uomo qualunque”, lo ripeteva sempre a tutti ma in verità era un grande uomo, come non se ne trovano di questi tempi…