Una insolita e innaturale serenità sembrava avvolgere e anticipare l’ennesimo derby d’Italia: nessuna polemica o provocazione e neanche il consueto scambio di battute sullo Scudetto del 2006, trasformatosi in terreno di scontri epocali da tempo immemorabile. Vincere per dimostrare di essere i più forti e non per la voglia di imporre sul campo ragioni più consone a un tribunale. Ma si sa, questa partita non può non rappresentare un’eterna rivincita, non può non provocare scalpore, non può non suscitare un minimo di astio e sete di vendetta tra i celebri protagonisti di questa lunga ed estenuante diatriba: perchè Inter-Juventus, ormai, è anche questo. Conscio di tutto ciò, ci ha pensato Giancarlo Abete a ravvivare l’attesa, a rimettere la contesa sui “giusti binari”.
“La mia fede juventina non è un mistero”. Così esordisce il Presidente della Figc, colpito improvvisamente da una grave amnesia circa il suo ruolo ufficiale nel mondo del pallone. Non una sorpresa per la maggioranza degli addetti ai lavori, ma dichiarazioni quantomeno evitabili ed in controtendenza rispetto allo spirito delle norme interne della Federazione, che all’articolo 11 auspicano un esercizio delle funzioni secondo il principio di imparzialità da parte dei propri uffici. Imparzialità e distanza dalle parti che dovrebbe pervadere non soltanto le azioni di una istituzione così importante, ma anche parole e atteggiamenti pubblici. Una cosa è che renda nota la propria passione calcistica un tifoso qualunque, un’altra è che lo faccia chi ricopre una simile posizione di vertice scuotendo gli animi di chi, poco prima, sperava di vivere una vigilia priva di veleni.
“Come ha detto il presidente Agnelli esistono una contabilità del cuore e una contabilità ufficiale. Io necessariamente devo rappresentare quella ufficiale, ma se il tifoso della Juventus vuole contare 31 scudetti è libero di farlo” . Proprio quel “necessariamente”, avverbio dall’aspetto innocuo, esce rinforzato dal contesto in cui viene utilizzato, come se Abete avesse voluto rammentare di essere obbligato, dal ruolo ricoperto, a pretendere il rispetto di una decisione, che in cuor suo non condivide. Rispetto che, nel frattempo, non viene assicurato da chi dovrebbe ergersi a protettore di quanto è stato deciso e assodato in sedi ufficiali, creando, invece, ampi spazi di discrezionalità e crateri da cui possono facilmente fuoriuscire le più disparate e ingiustificate pretese e i mai assopiti rancori del popolo juventino.
In un’ ambiente in cui fioccano indistintamente deferimenti per ogni tipo di gesto e dichiarazione rilasciata in preda a rabbia o furore agonistico, spiccano le indisturbate affermazioni di chi, portando proverbialmente acqua al proprio mulino, si scaglia contro il giudicato, disconoscendone il valore.
“Quanto all’assegnazione dello Scudetto, quella non fu opera mia, c’era il professor Rossi” conclude un instancabile Giancarlo Abete, in vena di confessioni ai microfoni di Tuttosport. Affermazioni di un uomo il cui unico interesse sembra proprio quello di defilarsi e lasciare che siano gli altri a prendersi le responsabilità delle proprie azioni, nonostante questi altri abbiano rappresentato la stessa Figc, di cui oggi Abete si fa portavoce.
Una lavata di mani in pieno stile Ponzio Pilato: la strada più facile, ma evidentemente non la più giusta.