Angelomario Moratti, vicepresidente dell’Inter, è stato intervistato da La Gazzetta dello Sport per parlare del passato, del presente e del futuro del club nerazzurro.
Cosa ricorda del giorno in cui suo padre le ha detto: «Sto pensando di vendere l’Inter»?
“Non c’è stato un momento specifico, come non ci fu, nel 1995, quando la ricomprò. Per farle capire: sa quando per la prima volta mio padre mi disse “Se capiamo che vendere è la soluzione migliore, dobbiamo pensarci”? Credo fosse il 1996, appena un anno dopo essere tornati proprietari. La sua filosofia non è mai cambiata: una porta sempre aperta, mai un senso di proprietà totale dell’Inter. Non possesso, semmai responsabilità”.
Un modello unico: troppa responsabilità, alla distanza?
“Modello unico nella misura in cui credo sia unico il legame che c’è sempre stato e c’è fra noi e la squadra: non ci si può aspettare, e anzi sarebbe ingiusto nei confronti dei nuovi soci, che possa essere ricalcato. Troppa responsabilità? Sicuramente la stessa che ha portato mio padre a ritenere che il suo mecenatismo senza alcun ritorno, sia a livello di investimenti che di immagine, fosse una formula ormai inattuale. Di più: in prospettiva, addirittura pericolosa per la società stessa. La prima a rischiare di rimetterci, quando la famiglia per qualunque ragione avesse deciso di smettere di investire”.
E lei cosa disse a suo padre, quando capì che quella decisione a suo modo traumatica per tutta la famiglia era stata presa?
“Ero stato troppo coinvolto in quella scelta per poter sentire un colpo al cuore: al di là dei dispiaceri personali, davanti a tutto c’è sempre stato il meglio per l’Inter. Scegliere un modello radicalmente diverso poteva essere un cambiamento realizzabile anche al nostro interno, ma si sarebbe dovuta cambiare la natura della nostra natura: il fatto di essere così interisti, tifosi in maniera così viscerale, di fatto non avrebbe invece permesso i cambiamenti necessari. Per questo trovo che mio padre abbia dato prova di grande intelligenza, oltre che di amore per l’Inter”.
Ci racconta quel suo blitz in motorino nell’hotel di Thohir, il 25 luglio, per «salvare» un accordo che stava rischiando di saltare clamorosamente?
“Non fu un incontro riparatorio, ma chiarificatore: importante, non così decisivo. I momenti chiave della trattativa sono stati altri: il primo faccia a faccia con tutti i soci; l’incontro di Parigi, quando abbiamo capito davvero di aver scelto la strada giusta e le persone giuste; e poi, personalmente, un viaggio in macchina io e Thohir da soli, da Milano a Imbersago, a parlare delle nostre “vision” sull’Inter del futuro, scoprendoci più vicini di quanto forse immaginassimo”.
Oggi che cosa le dicono i tifosi quando la incontrano?
“I tifosi tendono sempre a dire cose che fanno piacere a chi se le sente dire, dunque: ‘L’Inter sarà sempre dei Moratti’. Ma è importante che non sia così, che l’Inter sia indipendente da un investitore unico, che sia solida di suo. Questo senza perdere la sua natura, ma facendo sì che non sia più legata esclusivamente all’amore di una famiglia”.
A proposito di amore: forse non lo dicono a lei, ma i tifosi mescolano le speranze alla preoccupazione che l’Inter per Thohir sia anzitutto una questione di business.
“Quella del calcio italiano non è una semplice decadenza, è una crisi profonda: il tonfo c’è già stato ed è molto difficile per chiunque aver voglia di scommettere su un mondo che non ha saputo dare garanzie. Aggrapparsi ai modelli passati sarebbe irresponsabile: vale per dirigenti, media, tifosi; viceversa, creare un diverso modello di efficienza è l’unica strada. Che comporta rischi e sacrifici: ad esempio dover fare i conti con tempi diversi rispetto a quelli a cui si era abituati fino a qualche anno fa”.
E’ più facile che fra due anni i Moratti escano dall’Inter o che, come da clausola contrattuale, possano riprendersi tutta l’Inter?
“Mi pare più facile, ma soprattutto più importante, immaginare che si possa lavorare con grande unione di intenti e che il progetto che abbiamo concordato inizi a realizzarsi. Non sarebbe inconcepibile pensare di uscire dall’Inter, ma Thohir e i suoi soci ci chiedono esattamente il contrario e quello che sentiamo al momento, al di là di quote, clausole o possibilità di veto esistenti, è una grande sintonia, oltre che un grande senso di responsabilità. E difficilmente potrebbe essere il contrario: ovunque si entri, all’Inter si respira ancora la presenza della mia famiglia”.
E’ mai stato possibile un Moratti presidente? Lei, se non suo padre?
“E’ stato chiesto ad entrambi, ma la risposta è sempre stata no, da subito. Era anche una questione di chiarezza verso l’esterno che uno di loro ricoprisse quella carica: per avere, anzi vivere, ancora di più la responsabilità di investire nell’Inter”.
Qual è la vera essenza della sua vicepresidenza?
“Direi diverse: in quanto soci, il desiderio ma anche il dovere di vivere da dentro questa partnership; una continuità della memoria storica della famiglia; soprattutto la condivisione della stessa idea di futuro, dunque la necessità di lavorare insieme: per come è impostata adesso l’Inter, saremmo in difficoltà gli uni senza gli altri”.
Si può avere la stessa idea di futuro partendo da filosofie così diverse?
“La differenza sta soprattutto nel vissuto: il valore aggiunto di Thohir può consistere proprio nel suo essere “altro” rispetto a quel passato, così da poterlo affrontare e vivere con più lucidità”.
Questo significherà anche dover rivoluzionare la società
“Ci saranno tempi dovuti – e potranno anche essere diversi in base ai ruoli e alle competenze – per verificare chi lavora all’Inter: nessuno sarà giudicato a priori, ma solo attraverso il suo lavoro, appunto”.
Qual è la sua idea di stadio per l’Inter?
“Sono dieci anni che ci lavoriamo e abbiamo già degli studi pronti, ma questo è il momento di aspettare: di assestarsi, vedendo come migliorare San Siro. Però resto dell’idea che l’Inter debba avere una sua casa, che il tifoso debba entrare allo stadio come se fosse casa sua e che la casa dell’Inter difficilmente possa essere San Siro risistemato: è una struttura poco rinnovabile e sarebbe comunque da condividere. Anche in questo c’è stata sintonia con Thohir: non è una priorità immediata, tutto andrà fatto con i tempi giusti”.
Un aggettivo per Thohir? E la sua parola d’ordine di questi primi mesi?
“Me ne vengono in mente quattro: entusiasta, umile, rispettoso e lavoratore. Si spende tantissimo per capire, soprattutto le cose che conosce meno: ci si butta proprio a capofitto, per colmare i suoi vuoti. Ma si può essere stakanovisti anche in punta di piedi, per questo la sua filosofia, più che parola d’ordine, è quella che abbiamo scelto insieme: evolversi rispettando il passato”.
La cosa che le dice più spesso? Ed è vero che la chiama ‘brother’, fratello?
“We work together, lavoriamo insieme. E ogni tanto sì, mi chiama brother . A volte anche sir : è una delle forme di quel rispetto che le dicevo”.
Cosa le ha detto dopo il derby?
“Era decisamente felice e non c’era bisogno che me lo dicesse: si vedeva”.
Cosa le piace di Mazzarri?
“Quello che ci ha convinto a progettare con lui un ciclo che possa durare il più a lungo possibile: il fatto che sia così totalmente focalizzato su quello che fa. Quasi troppo: a volte dovrebbe riuscire a rilassarsi di più. L’avete mai visto quanto fuma e come fuma dopo le partite?”.
Parlando di anno zero dell’Inter, Mazzarri ha chiesto alla società anzitutto chiarezza su obiettivi e prospettive.
“Rispetto a qualche anno fa, l’obiettivo è essere competitivi senza dover pensare per forza allo scudetto. Però parlare di anno zero può essere fuorviante: puntare in alto è un dovere, anche per motivare nel modo giusto la squadra, e sono sicuro che lui lo faccia. Ma è un dovere anche parlare chiaramente ai tifosi: l’aspettativa è tornare ai nostri livelli, ma con tempi e una progettualità diversa, che dunque abbia uno sviluppo negli anni e non a breve termine. E per esigere pazienza, bisogna comunicare in modo chiaro: questo è quello che ha chiesto Mazzarri”.
Scommetterebbe sull’Inter in Champions e perché?
“Ce la possiamo fare: l’Inter deve volare alto. Fondamentale è averla come aspirazione, ed è un’aspirazione legittima: se poi, ma solo poi, non dovessimo arrivarci, non sarà una condanna per nessuno”.
A fine gennaio dove vede Guarin?
“Come risponderebbe mio padre, o lo stesso Thohir: per il mercato rispondono gli uomini mercato, e vale anche per Lavezzi, Lamela e tutti quelli di cui si parla in questi giorni. Io Guarin lo vedo come un potenziale grande giocatore, che deve capire la responsabilità di caricarsi i compagni sulle spalle, come ha fatto a Napoli e nel derby”.
Per l’Inter che sarà, è più importante Guarin o la punta che serve a Mazzarri?
“E’ importante che la squadra segua l’allenatore e che l’allenatore confidi nei giocatori che ha: è su queste basi che verranno fatte le prossime scelte di mercato”.
Il più e il meno di questa prima parte di stagione?
“Sono felice che Alvarez inizi ad esprimere parte delle sue potenzialità: mi piacciono i giocatori di talento e lui ha sempre continuato a dare il massimo anche in un ambiente che lo ha avversato molto. Di migliorabile c’è la classifica: di quei 4-5 punti di cui ha parlato anche Mazzarri”.
Orgoglioso di aver ispirato a suo tempo la scelta di Alvarez?
“Leggenda. Non ho mai dato suggerimenti, né pareri determinanti, sul mercato: non mi sarei mai permesso”.
Suo padre l’ha chiamata «vacanza»: dopo la cessione della maggioranza lo vede più sereno, o più in astinenza da Inter?
“Astinenza direi di no, visto quanto continua a seguire la squadra. Diciamo che è un momento nuovo: respira di più, vive l’Inter con meno pressione. Ma non so se è quello che vuole davvero, abituato com’è a vivere di pressioni. Secondo me, nell’Inter o fuori, qualcosa che continui a dargliene la troverà comunque”.
Si può pensare che l’abbia già trovata?
“Non ho idea, ma so che non è nella sua natura fare “vacanze” troppo lunghe…”.